di Giorgio Franco
A Cetraro, terzo piano Palazzo del trono, ha esposto Marcello Ciampa, pittore di lungo corso, che ha utilizzato i colori e la tela per stabilire un contatto con la realtà che reclama con insofferenza sollecite risposte. Il tema delle nuove produzioni ha per titolo “il pentito” e la tela cui esso fa da riferimento troneggia nella parte centrale della mostra con un emblematico volto umano illuminato in una sola parte di esso da un fascio di luce che ne evidenzia mento, labbra, naso e guancia sinistra; un occhio solo vede e una parte della calotta cranica è avvolta in un informe cappuccio che deforma i lineamenti della persona e le linee del dipinto. Si pente chi vede solo una parte del tutto? E’ il “pentito” avvolto in una fascia che ne impedisce l’evidenziazione del creato? Rappresenta il quadro chi oramai ha visto ed inteso e vedrà ancora di più, mano a mano che il fascio di luce lo illuminerà?
Da questi interrogativi Ciampa passa a dare forma artistica ad una visione originale ed emozionante del vivere, e forse convivere con il creato.
Ogni tela ha un titolo: la scelta dell’artista è in linea con chi ha voluto indicare alle sue opere strade e percorsi interpretativi che ad una lettura immediata sarebbero sfuggiti: titolare le proprie creazioni significa per un artista offrir loro una vita che non si circoscriva all’immediato, ma aspira a varcare i limiti spazio-temporali. Il particolare che diventa emblematico di un intero progetto e ne enfatizza oltre che limitarne l’estensione, si nota in “jeans”, “ciotola”, “aquilone”, “lume di strada”, “tacco mortale”. L’artista parte da un elemento per allargare la contaminazione al tutto ed inserirla in quella ricerca d’assoluto che l’accoppiamento cromatico, la proporzionalità dei volumi, le ansie di risposta, gli impongono. Quando la tematica si indirizza sul soggetto umano, “la sposa”, “l’imperatrice”, “lo sposo”, “indifesa”, “marylin”, l’elemento antropologico diviene pre-testo per indagini ed esami che conducano attraverso la stratificazione delle forme mediante cubi-fasci di luce-accoppiamenti cromatici, ad un’identificazione inconsueta e straniante: le pallettes della sposa, la cravatta dello sposo, la parte superiore del viso di Marylin, il ventre ingravidato dell’indifesa, costituiscono elementi di avvio, cui seguono divagazioni, ammiccamenti, missaggi, che danno il segno del valore creativo di questo pittore non adeguatamente valorizzato del nostro territorio. Un settore altamente significativo della mostra raccoglie un’autoanalisi del pittore, consapevole che le armi di cui dispone e che gli servono per trascrivere la realtà, sono di legno, come al legno si è dedicata gran parte della sua produzione del recente passato; bello è quel filo di lana che non riesce ad assurgere a sagoma umana o quel “fiori di campo” che, sradicato dall’anonimato della sua esistenza, formalizza una bellezza virginale osannata da una coreografia di giallo, la quale, dosata con perizia e abilità dall’artista, riesce a garantire un’aria aurorale e mistica alla creatura femminile. C’è infine “bitume”, un’opera che sintetizza il lungo processo che ha portato l’artista all’allestimento della mostra: la lezione del Cubismo che ha utilizzato geometrie cromatiche triangolari per evidenziare le nuove prospettive dello sguardo cui ci ha abituato Picasso, la lezione di Dalì che ricorre alla convivenza inedita tra oggetti e loro periferie dilatate da cromatismi inesplorati. Non manca la carnalità delle icone religiose, che hanno restituito al sacro la sua vera dimensione terrena, desunta dai vangeli apocrifi e giunta a noi attraverso una lunga tradizione culturale che vede la Yourcenar accanto a Fo, entrambi premi Nobel : essa si collega ad un Cristianesimo umanistico che ha registrato nei secoli la presenza di grandi figure di intellettuali, insoddisfatte del diaframma frapposto dalle gerarchie secolari tra l’umano ed il divino, tra una Maria, come ci hanno spiegato i Mariologi, sull’orlo di una lapidazione per il suo ventre ingravidato ed una Maria eterea e celestiale, figura angelica che supera la sua terreneità, senza però negarla. Ciampa si è cimentato coraggiosamente con tale problematica, non dimentico della lezione del Caravaggio, che, per umanizzare le sue eroine, osannate e santificate da una Chiesa postridentina che le aveva, però, sradicate da un contesto di umanità sofferente e vitale, ne contornò lineamenti ed atteggiamenti copiandoli da modelle “plebee”. La mostra di Ciampa è un ulteriore tassello da incastonare nella ricerca cui l’artista si sta dedicando per scoprire ed evidenziare una realtà che non è facilmente decifrabile a causa della sua misteriosa complessità. E’ riuscito il pittore cetrarese a semplificare l’inestricabile? Lui ha lanciato una pietra nello stagno, ha abbozzato un sentiero, resta a chi legge-visita-fruisce, rispondere- argomentare-collegarsi. Se oggi ha senso creare-produrre-inventare scoprire, forse la via giusta è quella della provocazione innovativa. Perché altri raccolgano il testimone. Altrimenti è silenzio.( Calabria Ora 20 agosto 2008)
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