sabato 28 luglio 2007

FESTIVAL DEI CORTI RIVIERA DEI CEDRI

Il 29 agosto alle ore 21:00 nei giardini di Palazzo del Trono a Cetraro avrà luogo la terza edizione del Festival dei corti “Riviera dei cedri”, organizzato dal Laboratorio Sperimentale “Giovanni Losardo” in collaborazione con i Comuni di Cetraro e di Verbicaro.
L’evento culturale prevede la premiazione per la sezione Scuola dei cortometraggi: “Da nemiche ad amiche”, realizzato dalla II E dell’Istituto Comprensivo di Castelmaggiore (BO) e “Le bugie hanno le gambe lunghe” realizzato dall’Istituto Comprensivo di Guardia Piemontese (CS).
Per la sezione Solidarietà sarà premiato il corto “L’impero dei contrasti. Luci ed ombre” realizzato da Pierluigi Conzo di Napoli.
Per la sezione Giovani Talenti sarà consegnato un riconoscimento ai giovani registi Marco Infusino, Francesco La Regina ed Antonio Antonuccio rispettivamente per i corti “La rosa”, “Albert, Al & Bart e la relatività speciale”, “C’era un ragazzo che come me”.
Nella I edizione, che si è svolta il 29 Agosto 2005, sono stati premiati i cortometraggi “Se fossi un mago”, “I have a dream” e “Cetraro ieri, Cetraro oggi”. Nella II edizione del 28 Luglio 2006 il premio è andato ai corti “Il viaggio” di Mauro Ganeri, “C’ero ma non ero io” di Andrea Grosso Ciponte e “Le spose di Ascanio” di Antonio Antonuccio.
La serata sarà coordinata da Mirella Mannarino e Franca Muglia. Nel corso della manifestazione, inoltre, saranno proiettati in anteprima alcuni dei corti d’animazione stranieri in concorso alla II edizione del Premio Simona Gesmundo, che si concluderà il 26 e 27 Ottobre prossimi sempre a Cetraro.
La razzia degli intelletti
di Vincenzo Andraous

Mi chiedo spesso perché sull’extracomunitario da rimandare alla riva opposta, ci si spende in tanti, mentre sono davvero pochi quelli che prendono in considerazione con lo stesso furore ideologico la possibilità che c’è un’altra umanità, ed è lasciata al caso, peggio, dimenticata sul ciglio di una strada, quasi sempre sotto gli occhi indifferenti del cittadino.
E’ disumana la razzia degli intelletti posti sotto il tallone delle ideologie fast food, ma forse ancor più miserabile è l’accettazione di un massacro di carne e ossa e sentimenti così ben consolidato da non creare ulteriore vergogna: l’assassinio sistematico degli animali attraverso la pratica ben oliata del loro abbandono.
Certamente sono due intendimenti diversi, ma entrambi forme occulte di razzismo, comportamenti imparentati all’incultura, per cui ci si rifiuta di integrarsi da una parte, di fare proprie le regole del vivere civile dall’altra.
Sono operazioni neppure tanto sottotraccia, che hanno la pretesa di passare inosservate nel rifiuto a osservare quelle misure di prevenzione, che sono sinonimo di promozione e accoglienza umana.
In questo vicolo cieco, andare a sbattere non è casuale, la domanda scava nel fianco, mal tolleriamo i diversi da noi, e mal operiamo per renderli cittadini migliori.
Così ogni giorno raccogliamo animali abbandonati, raccattiamo resti inguardabili di animali lacerati, animali denutriti, picchiati, lasciati al sole e alla catena, senza acqua e senza cibo.
L’incultura più pericolosa è proprio il non rispetto dell’altro, perché è sostanza estranea al fattore umano che dovrebbe ricorrere in ognuno di noi, quando anche un animale in quanto essere e fratello vivente, è preso a calci, con l’impunità che deriva dal concetto tutto italiano, che tanto è costume, è tradizione, che al primo caldo si sciolga l’affetto e l’alleanza con l’amico a quattro zampe.
Non credo di essere razzista a fare questi accostamenti, non riconosco piani differenti sul valore universale della solidarietà e sul richiamo a fratellanze allargate, non nutro sentimenti di avversione per chi è diverso da me culturalmente o per epidermide più o meno abbronzata dalla natura, ma neppure intendo avallare la stortura di un potere che muove le sue pedine per darla a bere a questo e a quell’altro, per rendere meno indigesta l’inadempienza a discapito della giustizia, la quale tutela l’uomo, e non accetta distacco per l’ammazzamento persistente degli animali.

giovedì 26 luglio 2007

QUANDO IL CAPORALATO È DI STATO

di Francesco Grosso

Immaginate di partecipare ad un gioco, magari di quelli – non particolarmente intelligenti, in verità – che si fanno in questo periodo sotto l’ombrellone. Il gioco consiste nell’individuare il tipo di reato che uno dei giocatori sta descrivendo.
Primo caso: un tizio intraprende un’attività commerciale, apre un negozio, e ad un certo punto gli si presentano davanti due loschi individui, che gli dicono più o meno: «Hai bisogno della nostra protezione. Sì, insomma, qualche ragazzaccio con il passamontagna, qualche ladruncolo che di notte si aggira per la città, potrebbe entrare nel tuo negozio, e danneggiare gli scaffali, rubare la merce, o addirittura bruciare tutto! Ma non c’è problema: per ovviare a questo è sufficiente pagare, mensilmente, la Protezione che noi ti offriamo. Una piccola somma e passa la paura. Senza questo esborso, non potresti lavorare.»
A questo punto uno dei giocatori interrompe e urla: «Ma sì, questa è una tangente, un’estorsione, insomma: questo è racket!» Benissimo, risposta esatta. Andiamo avanti.
Secondo caso: un tizio acquista un computer, si allaccia alla Rete, e questa volta senza neppure bisogno della visita di un paio di loschi individui, si accorge subito che manca qualcosa. I racconti di tanti suoi amici che un computer ce l’hanno già gli fanno sentire, più o meno, queste parole: «Hai bisogno della nostra protezione. Sì, insomma, qualche ragazzaccio con la bandana, qualche adolescente giapponese che a casa non ha nulla da fare, potrebbe entrare nel tuo pc attraverso un virus, e danneggiare file, carpire dati importanti, o addirittura distruggere tutto! Ma non c’è problema: per ovviare a questo è sufficiente acquistare, annualmente, la Protezione che noi ti offriamo. Una piccola somma e passa la paura. Senza questo esborso, non potresti lavorare.»
A questo punto gli altri giocatori iniziano a guardarsi in faccia smarriti. C’è una lunga pausa, e poi il più coraggioso di essi afferma, questa volta a bassa voce: «Ma sì, questa è una tangente, un’estorsione, insomma: questo potrebbe essere racket…» Potrebbe essere o è? «Mah, diciamo che non c’è molta differenza, fra i due scenari…» Risposta sbagliata, sbagliatissima. La differenza c’è, ed è enorme. Quanto descritto prima è una cosa bruttissima e censurabile, oltre che assolutamente illegale, perpetrata da un’associazione a delinquere. Quanto descritto adesso, invece, si chiama Protezione Antivirus, è una cosa buona e giusta, un servizio offerto da una multinazionale seria, ed è perfettamente legale.
È legale perché il Sistema ha deciso che è legale.
In un articolo breve come questo non è possibile scomodare Foucault o Benjamin per tentare l’impresa di spiegare perché l’ordinamento giuridico, i Poteri Costituiti attualmente egemoni nel mondo, considerino legali, ad esempio, le guerre preventive, lo sfruttamento del neo-colonialismo travestito da globalizzazione, il furto delle risorse idriche mondiali – a vantaggio dei colossi della bottiglia –, o quello delle risorse minerarie e forestali; sono legali, nel mondo, pure i tassi da usura che applicano le banche, o quelle allegre transazioni bancarie che hanno per oggetto armi leggere e pesanti; è legale anche l’istigazione a delinquere perpetrata dalle case automobilistiche, cioè la fabbricazione di autovetture in grado di raggiungere velocità degne di arresto immediato a qualsiasi latitudine.
Ci si deve solo accontentare, in questa sede, di ricordare che in fatto di legalità e illegalità non esistono criteri assoluti e universalmente accettati. Ogni società si è sempre data le sue regole, e le regole sono sempre state scritte a vantaggio di quella che, con linguaggio moderno, possiamo indicare con il termine di «classe dirigente.»
Perché un così lungo e sconclusionato discorso preliminare? È presto detto.
Rituffiamoci di nuovo nel gioco. Terzo caso: una persona bisognosa è disposta a mettersi, come si dice, “sotto padrone”, in un’assolata giornata di luglio, in una campagna pugliese. La raccolta dei pomodori è già iniziata, il “padrone” ha bisogno di braccia, e accetta l’offerta del disperato. La paga consiste in qualche euro giornaliero; il lavoro è massacrante, pericoloso per la salute e privo di tutela sindacale. Non è neppure lavoro, insomma: il termine che lo qualifica è «caporalato», neologismo che cela una realtà criminale della quale in Italia, purtroppo, si parla sempre poco.
Quarto caso: una detenuta statunitense ha bisogno di denaro per assicurarsi qualche giorno di sopravvivenza dopo la sua uscita dal carcere, visto che è in scadenza di pena, ed è dunque disposta a mettersi “sotto padrone”. Il padrone (in questo caso alcune grandi aziende agricole del Colorado) ha bisogno di braccia per la raccolta di meloni, cavoli, zucchine, peperoncini… La manodopera scarseggia perché le nuove leggi anti-immigrazione dello Stato hanno impresso una pesante stretta agli arrivi di clandestini dal vicino Messico. Il padrone, dunque, si accorda con l’amministrazione penitenziaria del Colorado, e l’offerta della disperata (delle disperate…) viene accettata. La paga: al netto di trattenute varie (non manca la simpaticissima voce: «Conto rimborso danni» alle vittime delle loro malefatte…) le detenute percepiscono 80 centesimi di dollaro al giorno. No, non è un errore di battitura, avete letto bene: 80 centesimi al giorno, 10 centesimi all’ora; perfino il più farabutto dei caporali nostrani si vergognerebbe di destinare così poco, ad un suo schiavo. Ma un conto è lo sfruttamento di un farabutto senza scrupoli, e un altro è lo sfruttamento, pianificato e sistematico, di Stato. Nelle ore centrali della giornata, a luglio, la temperatura media della zona teatro del simpatico esperimento è di 42 gradi. Il lavoro è dunque massacrante, pericoloso per la salute e praticamente privo di tutela sindacale.
Ovviamente tutto questo non si può definire caporalato, non è moralmente ripugnante, e per porvi fine non è possibile avvisare la polizia (c’è gia, tra l’altro). Tutto questo non si chiama caporalato: si chiama «reinserimento sociale di individui pericolosi». Sembra uno scherzo, un esempio provocatorio, ma non lo è affatto. Tutto è tremendamente vero, sotto gli occhi di chiunque volesse sincerarsene. L’incredibile storia che arriva da Pueblo, Colorado, Stati Uniti, sembra in realtà provenire dal XVIII secolo, o giù di lì. C’è qualcosa di sinistramente esotico, nelle foto che ritraggono quelle giovani donne in maglietta gialla, curve nei campi, sorvegliate a vista da secondine a braccia conserte; immagini che sanno di dannati alla catena, di commercio di schiavi, di colonia penale nella Guyana francese, o di fazende brasiliane che nel nostro immaginario abbiamo giustamente eletto come luoghi di orrore e di inciviltà contemporanea.
Con impareggiabile volgarità, la portavoce dell’amministrazione carceraria del Colorado, Katherine Sanguinetti, si è sentita in dovere di affermare che le detenute prescelte «sono felici di lavorare nei campi, di stare al sole, di imparare un mestiere», come se farsi sfruttare per 10 centesimi di dollaro all’ora possa essere un qualcosa di realmente assimilabile alla categoria «lavoro». Non soddisfatta, l’encomiabile portavoce ha aggiunto, con mancanza di tatto e di sensibilità femminile davvero sconcertanti, un personalissimo tocco di colore: cioè che in fondo qualche sana giornata di fatica «può essere anche l’occasione per perdere qualche chilo.»
Che queste espressioni siano razziste e classiste – e non semplicemente imbecilli – è testimoniato da un elemento, persino scontato, a questo punto: la quasi totalità delle detenute impiegate in questi giorni nei campi (detenute, si badi bene, che non si sono macchiate di sangue, ma autrici di borseggi, piccoli furti e cose del genere, ritenute dunque degne di accedere ai lavori-premio) è costituita da sbandate, poveracce, immigrate, clandestine messicane per lo più – così il vergognoso cerchio può davvero chiudersi: il testimone del lavoro da schiavi nei campi, da quelle parti, è passato dal messicano-clandestino al messicano-galeotto.
La Nazione-faro dell’occidente, l’autoproclamata «più grande democrazia del mondo», permette che all’interno di un suo Stato venga perpetrato, legalmente e sotto gli occhi di tutti, un simile scempio dei diritti umani. La Nazione tanto vogliosa di esportare la democrazia nel mondo, paladina della stabilità e della Libertà Duratura, gareggia in ferocia e in squallore con gli aguzzini e i caporali di provincia – tra l’altro, ammantando il tutto di un nauseabondo alone moralistico.
A questo punto, potrebbe aprirsi un lungo discorso sulle contraddizioni insopportabili che convivono all’interno del Sogno Americano. Ma sarebbe superfluo, forse: certi episodi, certe notizie «marginali» (che mai e poi mai meriterebbero titoloni sui giornali) posseggono una forza intrinseca che lascia intendere le cose – a coloro i quali desiderano intenderle – in un modo che più chiaro non potrebbe risultare.

giovedì 19 luglio 2007

ALLE TERME LUIGIANE LA IV EDIZIONE DEL TEATRO SCUOLA MEDITERRANEO

Nella suggestiva cornice del Parco Termale Acquaviva delle Terme Luigiane di Acquappesa avrà luogo il 25 luglio alle ore 21 la IV edizione del Teatro Scuola Mediterraneo, promosso e organizzato dal Laboratorio Sperimentale “G. Losardo” di concerto con la Scuola di danza di Paola “Expression Dance” di Anna De Blasi e con la Libera Università Popolare ed il Comune di Acquappesa. La serata sarà coordinata da Mirella Mannarino ed avrà per tema ‘I guasti prodotti dal progresso’. Aprirà la manifestazione la proiezione del film muto “Il tempio delle tentazioni”, ridotto e rivisitato dal direttore artistico del Laboratorio Luigi De Francesco; saranno poi mostrati i filmati “Incatenata al Film” del regista Andrea Grosso Ciponte, “Tamara” di Claudio Papa dedicato a Italo Calvino e presentato da Franca Muglia, “Parole d’Amore”, confezionato da Federico Ciardullo. Francesca Villani per il Laboratorio Losardo darà inoltre alcune anticipazioni sul Premio Simona Gesmundo Corti d’Animazione, la cui seconda edizione si svolgerà i prossimi 26 e 27 ottobre a Cetraro.
Seguiranno quindi alcune performance della scuola di danza Expression Dance, un recital di poesie di Majakovskji, Pasolini e brani dell’XI canto del Paradiso di Dante Alighieri, ed alcuni spezzoni tratti dal musical Forza Venite Gente a cura di Maria Molinaro. Le scenografie sono state realizzate dall’artista paolano Vito Cofano.
La prima edizione del Teatro Scuola Mediterraneo, dal titolo “No al muro dell’indifferenza” si è svolta 13 dicembre del 2003; nella seconda, il 20 dicembre 2005, è stato rappresentato il musical Forza Venite Gente; la terza edizione, realizzata il 13 dicembre 2006, ha visto premiato il gruppo dei trampolieri “Gurfata” di Locri..

martedì 10 luglio 2007

Fuscaldo, un film sulla madre di San Francesco
San Francesco di Paola e sua madre sono al centro delle vicende raccontate in un film girato nella primavera di quest’anno a Fuscaldo. Grandi emozioni e un’attenta ricostruzione storica per una pellicola che tiene stretti spiritualità e lirismo

Domenica 15 luglio, nel chiostro del convento dei Padri Passionisti in Fuscaldo, verrà proiettato in anteprima nazionale il film “Vienna da Fuscaldo, madre di San Francesco di Paola”. L’infanzia di Francesco è il tema di questo toccante lungometraggio girato nella scorsa primavera a Fuscaldo. La forza e la caparbietà di quest’uomo, che seppe parlare ai potenti della terra come ai più deboli e sofferenti, è nota: il film indaga le origini del suo misticismo e della sua grandezza, andando a esplorare le sue radici ed il terreno in cui si nutrirono.

Centrale in questo contesto furono il padre e soprattutto la madre del santo: Vienna. Una donna ricca di spiritualità che, come il figlio, seppe farsi portatrice del messaggio cristiano non solo attraverso una intensa vita spirituale, ma con atti di carità e devozione che ancora ne fanno un’icona nell’immaginario calabrese. Grazie a una emozionata e vibrante interpretazione della protagonista, Paola Scirchio, lo spettatore è trascinato nelle tormentate vicende di questa donna. I lunghi anni di infertilità di Vienna e suo marito Giacomo, e poi la malattia che colpì Francesco ancora in fasce, segneranno profondamente la vita di tutti. Così come la nascita e poi la guarigione del piccolo saranno momenti di potente commozione capaci di riscrivere negli occhi degli spettatori il senso stesso di felicità.

Il regista Fabio Marra, alla sua prima esperienza con un lungometraggio, ha dipinto una grande tela caravaggesca del dolore e della sofferenza umana e i protagonisti hanno fatto rivivere le vicende raccontate con una intensità rara. Il percorso che porterà Francesco alla santità è messo in scena come una grande avventura umana, e per gli spettatori è davvero difficile resistere alle emozioni che rendono viva questa pellicola.

Dunque non un film religioso in senso stretto, quanto uno spettacolare viaggio attraverso le stazioni di dolore e di gioia che hanno segnato la famiglia del santo e della sua famiglia. Un film che ha il merito di costruire numerosi ponti: primo fra tutti quello fra il passato e il presente della Calabria. Grazie anche ad una ispirata colonna sonora (composta per l’occasione da Anna Sardone), si viene proiettati in una dimensione storica lontana, percependo ancora ogni fremito, ogni palpito dei protagonisti. E si freme e si palpita insieme a loro.

Che questo film sia capace di emozionare ne è testimonianza il grande applauso che ha accolto la proiezione dell’anteprima il 19 maggio scorso. Nella più bella piazza del centro storico di Fuscaldo, centinaia di spettatori hanno trattenuti il fiato per i venti minuti presentati in anteprima. Nato come un cortometraggio sotto il patrocinio del Comune dell’amministrazione comunale di Fuscaldo, la forza e la caparbietà del regista lo ha trasformato in un film di novanta minuti che verrà proiettato in numerosi festival anche oltreoceano. Toronto, Buenos Aires, Cincinnati, Melbourne: sono alcune delle città in cui

Girato in appena quattro settimane e con pochissimi mezzi, il film è stato anche un grande sforzo di ricostruzione storica: ambienti, oggetti d’arredo e soprattutto un grande lavoro sui costumi (realizzato con estro e pignoleria da Cetty Trapolino), tutto contribuisce a calare il film in una realistica e suggestiva atmosfera medioevale.

La troupe non si è risparmiata, lavorando spesso fino al mattino: Carmelo Ramundo, Raffaele del Monaco, Arturo Barbuto e Cinzia Pelle hanno fatto del set la loro casa per un mese intero. Fuscaldo ha avuto un ruolo determinante: con i suoi vicoli e le sue facce ha contribuito a dare anima e corpo alle vicende raccontate. Durante le riprese, fra la popolazione della cittadina c’è stata una vera e propria mobilitazione, cosa che ha restituito al film un senso di verità e necessità che si respira in ogni scena, e su ogni volto di questo piccolo miracolo cinematografico.

Le foto di scena sono disponibili sul sito http://www.comune.fuscaldo.cs.it/index.php?option=com_content&task=view&id=427&Itemid=5

Regia di Fabio Marra

Personaggi principali e interpreti
Vienna da Fuscaldo - Paola Scirchio
Giacomo - Silvio Stellato
Francesco ragazzo - Giuseppe Seminara
Brigida bambina - Federica Ramundo
Padre Antonio - Raffaele del Monaco
Comare Maria - Cinzia Pelle

Prodotto da
Carmelo Ramundo
Fabio Marra
Raffaele del Monaco
Arturo Barbuto

Fotografia
Arturo Barbuto

Costumi
Cetty Trapolino

Musiche originali
Anna Sardone

lunedì 9 luglio 2007

Il trasformismo nei Viceré di De Roberto
di Margherita Ganeri

I. I Viceré è un romanzo di denuncia politica: attraverso la storia della nobile famiglia Uzeda di Catania, discendente immaginaria degli antichi viceré di Sicilia, l'autore racconta in chiave molto critica il processo di unificazione nazionale in Sicilia, tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta dell’Ottocento. Il tema del fallimento del Risorgimento viene letto come premessa dell’avvento del trasformismo, la politica ufficialmente inaugurata nel 1882 da Agostino Depretis, dopo l’accordo con Marco Minghetti, ma di fatto operante già nel decennio 1876-1887. La pratica del trasformismo si attenuò sotto il decisionista Francesco Crispi, ma si concluse ufficialmente solo nel maggio 1892, con l’avvento di Giovanni Giolitti. Di fatto, però, anche nei governi di Crispi e di Giolitti, che esercitavano il potere grazie all’appoggio di un ceto politico corrotto, la mentalità trasformistica non scomparve. Per questa ragione, tutta la fase italiana post-risorgimentale, nel periodo tra l’82 e la prima guerra mondiale, è spesso genericamente definita del trasformismo. Il termine allude perciò non solo all’annullamento della dialettica fra maggioranza e opposizione, per effetto della fusione dei partiti tradizionali (destra e sinistra liberali) in un unico raggruppamento centrista, ma anche agli aspetti patologici di un sistema estensivamente clientelare. Il trasformismo è quindi un atteggiamento politico opportunistico e incoerente, che spinge a cambiare partito per puro interesse personale, e implica una visione immobilistica della politica, dato che le scelte di schieramento non modificano la sostanza dei poteri.
Del fenomeno, nei Viceré, viene data una rappresentazione molto incisiva. Di fronte ai moti risorgimentali e all’erosione del prestigio e del potere nobiliare, la famiglia Uzeda riesce ad adattarsi al nuovo corso storico: prima Gaspare duca d’Oragua, poi il principe Consalvo di Francalanza vengono eletti al parlamento (il primo al piemontese, il secondo al romano, dove ottiene presto anche la carica di ministro). I Viceré si chiude con l’elezione del 1882 (anno in cui inizia il trasformismo storico). L’incompiuto Imperio, che conclude la trilogia Uzeda, è un romanzo parlamentare, che racconta la stagione del trasformismo. La denuncia che troviamo nei Viceré è fondata sui documenti storici e sull’ancoraggio ai fatti, anche se alla realtà documentaria si contrappone una scrittura ironica e pungente, che mette in ridicolo e sbeffeggia i potenti e le loro strategie di potere, a cominciare, ovviamente, dal linguaggio politico. Il tono grottesco smorza ogni possibile effetto lirico o melodrammatico: il registro dominante è al contrario sarcastico, tra livore e amarezza disillusa.

II. In una prospettiva politicamente impegnata, De Roberto dipinge le classi egemoni e il ceto intellettuale siciliano di fine secolo come artefici di un degrado morale e umano senza speranza. Proprio perché la denuncia ha come bersaglio il generale svuotamento dei valori politici operato da un intero ceto dirigente, composto di nobili e di borghesi, disposti a cambiar bandiera e partito, la prospettiva di De Roberto non è conservatrice e aristocratica. Pur appartenendo alla nobiltà siciliana decaduta (da parte di madre), il nostro autore era un liberale di mentalità borghese; un intellettuale inizialmente romantico, che nell’età del trasformismo comprende il fallimento e perciò il carattere troppo idealistico dei valori risorgimentali. La sua delusione intellettuale lo spinge a un bisogno rabbioso (fino alla vera e propria cattiveria) di criticare le classi dominanti, soprattutto l’aristocrazia. Se nei Viceré i nobili restano al potere, la borghesia emergente è presentata come un ceto ingenuo perché incapace di opporsi alla nobiltà. Un intellettuale borghese come Benedetto Giulente, che riesce a sposare la più giovane figlia della casata Uzeda, Lucrezia, è colto e romantico, ingenuamente idealista, e proprio per questo si vede scalzato, alla fine, da Consalvo, nelle proprie aspirazioni di carriera politica. Capirà solo dopo la propria sconfitta personale che le sue idee di progresso erano romanticamente ingenue. E nelle sue parole, come per esempio nella seguente citazione, sentiamo la stessa rabbia dello “sconfitto” De Roberto: «Avevano promesso il regno della giustizia e della moralità; e le parzialità, le birbonate, le ladrerie continuavano come prima: i potenti e i prepotenti d'un tempo erano tuttavia al loro posto! Chi batteva la solfa, sotto l'antico governo? Gli Uzeda, i ricchi e i nobili loro pari, con tutte le relative clientele: quelli stessi che la battevano adesso! » (Benedetto Giulente, nei Viceré). Si sentono qui l’amarezza, la delusione, la sfiducia che attraversano l’intero romanzo, per effetto del punto di vista critico e impegnato di De Roberto, che però non parla mai in prima persona.

III. I Viceré è affollato da un ampio numero di personaggi, di cui molti sono storici: vediamo in scena, seppure sullo sfondo, Garibaldi, Bixio, Menotti. Naturalmente i più importanti sono i numerosi membri della famiglia Uzeda. Questi sono in costante conflitto tra loro per le ragioni più svariate, sono prepotenti che non conoscono vie di mezzo, sono inetti o megalomani dominati dalla volontà di potenza. Sono tutti pazzi, come dice spesso la voce anonima della folla, hanno tic e manie ossessive e al tempo stesso sono molto testardi e volubili, dato che cambiano radicalmente idea in modo imprevedibile. Ma, soprattutto, gli Uzeda sono cinici ed egoisti, non hanno valori e sono mossi sempre e solo dal proprio personale tornaconto. Per effetto della sete di potere, nessuno si salva, nessuno è sano, nessun personaggio è positivo. L’anziana Teresa che muore all’inizio del romanzo è una madre snaturata, che gode dell’esercizio di un’autorità perversa, perseguitando ingiustamente quasi tutti i propri figli (ne costringe due al convento, al primogenito impedisce il matrimonio d’amore e lo spodesta di metà del patrimonio, a Chiara impone di sposare il marchese Federico di Villardita, a Lucrezia di restare zitella, e tratta Ferdinando da Babbeo). L’unica eccezione riguarda il bellissimo Raimondo, amato invece in modo quasi incestuoso. In De Roberto troviamo spesso esempi di madri sadiche, persecutrici e autoritarie, oppure madri deboli e vittime. La maternità è sempre il rapporto in cui si concentra il maggior tasso di sadomasochismo, forse per riflesso di quello morboso che lo scrittore ebbe con la propria madre, amata e odiata in modo patologico fino alla fine della propria vita. I figli di Teresa sono tutti personaggi in qualche modo caratteriali, pieni di nevrosi: il principe Giacomo è avaro, opportunista, terrorizzato dai contagi e dagli iettatori, Chiara e Lucrezia sono volubili verso i propri mariti, il contino Raimondo è un dongiovanni viziato e anaffettivo. Ma nevrotici, in effetti, sono un po’ tutti i personaggi del romanzo: per esempio lo è la prima moglie di Giacomo, Margherita, ipocondriaca e remissiva fino al masochismo, e lo è Graziella, la sua seconda moglie, un autentico gioiello di psicologia, per il buonismo lezioso fino alla stucchevolezza che nasconde invece un carattere pettegolo e maligno. E certo lo è Matilde, la moglie di Raimondo, prototipo dell’eroina romantico-masochista che finisce per morire d’amore. Oltre che «cocciuti» e cinici, gli Uzeda sono anche rozzamente incolti. Zia Ferdinanda, «la zitellona» che quasi non sembra una donna, è fiera della propria ignoranza, che considera un segno distintivo del proprio lignaggio. Anche Don Blasco, il vivace monaco blasfemo, lussurioso e avido, vede la cultura come «una minchionaggine», mentre il cavaliere don Eugenio, pseudo-letterato per necessità che si guadagna da vivere vendendo stemmi e genealogie fasulle ai nuovi ricchi, nasconde una parodia dell’intellettuale degradato di fine secolo.
IV. L’analisi psicologica, in De Roberto, è raffinatissima: tutti i personaggi sono contrassegnati da doppiezza e da mutamenti umorali, e questa loro duplicità e instabilità è un riflesso della degenerazione (ereditaria, certo, in linea con gli assunti naturalisti e il modello dei Rougon-Maquart di Zola), ma anche psicologico-sociale. Essa, insomma, è una conseguenza del clima storico e politico, è una manifestazione del trasformismo. Nell’universo dei Viceré, il gattopardismo è un modello comportamentale, più che semplicemente politico: è una malattia della psiche che intacca anche le sfere del privato. Per restare però al piano pubblico, esso è sempre messo sotto accusa dalla voce narrante. I due parlamentari Uzeda, Gaspare e il nipote Consalvo, scelgono la carriera politica per pura ambizione, senza alcun convincimento e alcuna idea, a parte il desiderio di potere. Per mostrarlo, basti riferirsi a una delle frasi più incisive del romanzo, pronunciata dal duca: «Ora che l’Italia è fatta, possiamo fare gli affari nostri», che rovescia il celebre motto patriottico di D’Azeglio: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli italiani». Nell’ultima parte dei Vicerè, Consalvo prende il sopravvento sui tanti parenti, diventando protagonista principale del romanzo. Egli è l’erede del titolo, il vero «predone» della nuova generazione, il vincente viceré dei tempi nuovi. Il figlio di Giacomo è il calco di un personaggio storico: si tratta del marchese Antonino Paternò Castello Di San Giuliano, un nobile catanese diventato sindaco di Catania e poi deputato e ministro nei governi Giolitti e Pelloux, quindi un personaggio politico di primo piano al suo tempo. Consalvo-Di San Giuliano incarna al peggio lo spirito dell’epoca: le sue qualità primarie sono il cinismo, l’opportunismo, il carrierismo, il trasformismo. È il trasformista per eccellenza della famiglia. È ovvio, quindi, che sia il principale bersaglio del romanzo, proprio come il marchese Di San Giuliano è l’oggetto di tante critiche espresse da De Roberto sui giornali catanesi. Per questo non si può pensare che lo scrittore fosse un sostenitore dell’ideologia gattopardesca e perciò un nichilista. Nel romanzo, infatti, il punto di vista della voce narrante non coincide con quello di Consalvo, e anzi ad esso si oppone in modo netto. Le affermazioni più “gattopardesche” del personaggio sono concentrate nel finale: «Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che ci sono i deputati, nostro zio è in parlamento. (…) Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai re, ora viene dal popolo... La differenza è più di nome che di fatto... Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; (…) Ma il mutamento è più apparente che reale. (…) «La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d'oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza.» (Consalvo, nei Viceré). Queste parole non veicolano il punto di vista di De Roberto, che resta in disaccordo totale con le convinzioni di Consalvo. Lo scrittore ne descrive la mentalità trasformistica, ma non vi aderisce.

V. Il risentimento che anima la sua scrittura è anzi il segno di una protesta non rassegnata contro il degrado e la corruzione della politica. Per la potenza di questa descrizione, I Viceré ci offre una rappresentazione storica di grande attualità, che sembra rispecchiare il declino civile e morale dell’Italia contemporanea. La mancanza di alternative programmatiche e la caduta degli schieramenti ideologici sono, infatti, i problemi più gravi anche della nostra democrazia. La rinascita dell’interesse per il romanzo si deve alla forte analogia tra la scena storica rappresentata e lo scenario attuale. Anche altri scritti di De Roberto sprigionano una forte carica di attualità, ma I Viceré offre quasi, mutatis mutandis, un ritratto dell’Italia contemporanea e del berlusconismo, inteso come fase di completa involuzione, come crisi anche morale e intellettuale. L’efficacia del paragone con il presente, peraltro, non si fonda su un’estrinseca somiglianza esteriore tra due momenti storici, ma sulla critica intellettuale di De Roberto, capace sia di rappresentare la storia senza infingimenti consolatori, sia di cogliere l’impasse della cultura nei momenti di crisi: De Roberto rappresenta lo stallo e l’impotenza del ceto intellettuale di fronte al degrado della politica.

sabato 7 luglio 2007

24 giugno Premio Losardo 2007. Il messaggio di Monsignor Giancarlo Maria Bregantini, vescovo di Locri


Vi raggiungo con affetto e stima, in questo giorno in cui siete riuniti per il conferimento del “ Premio Losardo 2007 “.

Mi rammarico di non poter essere con Voi, ma il 24 giugno è la solennità della Natività di San Giovanni Battista e, come tradizione, a Gerace, nel corso di una solenne concelebrazione con tutto il Clero diocesano, ordinerò due Diaconi permanenti con l’istituzione di un Accolito. Tutto questo in concomitanza con la mia festa onomastica, incastonata nella Giornata Diocesana per il Seminario.

A farmi rappresentare per tale lodevole iniziativa, ho delegato il Dott. Domenico Vestito, Direttore della Scuola di Formazione all’Impegno Sociale e Politico della nostra Diocesi.

Saluto con riconoscenza i Membri del Laboratorio Sperimentale “ Giovanni Losardo ”, che organizza questo appuntamento, in modo particolare il suo Presidente, Prof. Gaetano Bencivinni, nonché il dott. Fernando Caldiero. Un saluto va, poi, alle autorità presenti, ai rappresentanti della Regione, della Provincia di Cosenza, del Comune di Cetraro, dell’Università della Calabria e della Magistratura. Grazie, infine, agli stimati relatori e agli altri premiati per il loro impegno e il loro servizio nella e per la nostra terra di Calabria.

Il Vostro Laboratorio svolge una meritoria opera per la promozione e la diffusione della cultura della legalità in Calabria, richiamandosi alla figura di Giovanni Losardo, che ha pagato con la vita il proprio impegno sociale e politico. Testimoni come Losardo ci indicano con chiarezza quale sia la strada da seguire nella nostra terra.

In Calabria c’è un urgente bisogno di persone seriamente e coraggiosamente impegnate nella politica, capaci di avere come unico fine della propria azione il perseguimento del bene comune. Disposti a sacrificare gli interessi di parte e a non scendere a compromessi.

Di recente un sacerdote della mia Diocesi, che ha tutta la sua famiglia emigrata al nord, mi confidava, in lacrime, questo pensiero: “ Cosa manca alla nostra terra? Abbiamo tutto: clima, risorse, posizione, mare, montagna…tutto. Ma per la cattiveria e la ottusità di pochi, che rovinano, sporcano, uccidono…siamo costretti ad emigrare, impoverendo questa nostra già fragile terra! ”. Si di pochi, aggiungo io. Ma se i pochi tanto male possono fare, è forse anche colpa dei molti. Colpa nostra. Del nostro rassegnarci. Del nostro silenzio. Schiacciati dal male, che pur sentiamo pungente.

Dobbiamo, allora, reagire, consapevoli che solo operando scelte alternative di cambiamento e liberazione, si può salvare questa nostra Regione. Incoraggiamo quanti, soprattutto giovani, desiderano impegnarsi nella politica e nelle istituzioni. Non chiudiamo il mondo politico. Apriamo, “ i sistemi economici, culturali e politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo ” ( Servo di Dio Giovanni Paolo II. Città del Vaticano, 22 ottobre 1978 – Discorso inaugurale all’inizio del Ministero petrino). Non trasformiamo l’appartenenza partitica in una esclusiva, appannaggio di pochi eletti. La politica deve avere un’anima liberata dalla tentazione del potere, dall’arroganza irriguardosa di singoli nei confronti delle Istituzioni, dalla frenesia di combattere avversari senza lo spazio di un dialogo sereno e costruttivo, dalla fuga di responsabilità soggettive di fronte alle grandi questioni antropologiche non negoziabili. La politica – secondo la penetrante definizione del Servo di Dio Paolo VI – è “ la più grande forma di carità ” verso la Polis, intesa come luogo abitato da individui ai quali tocca non solo esercitare doveri, ma ai quali spettano diritti sanciti dalla Carta Costituzionale, quella Costituzione nata da dialoghi rispettosi tra uomini di diversa estrazione politica, dopo lacrime amarissime a seguito della Seconda Guerra Mondiale.

Profanare perciò – nella missione politica – la dignità dell’uomo, equivale a violare la bellezza della vita, dono esclusivo di Dio. La politica ha bisogno di uomini silenziosi, ricchi di umiltà, di sapere intelligente, di spessore alto e nobile, di umanità e di confronto. Ha bisogno di Rappresentanti che mettano al primo posto non se stessi o i propri interessi, ma l’uomo, soprattutto quello povero, affaticato, disoccupato, senza speranza.

La Calabria torni a sperare sui passi di chi ha donato tutto se stesso credendo e sperando nella sua liberazione. Il Vostro Laboratorio, pertanto, sia fucina di idee e di riflessioni da proporre con forza all’uomo calabrese e soprattutto a chi, da noi eletto, rappresenta la nostra voce, la nostra fatica, la nostra attesa.

Buon lavoro di cuore a Voi tutti, grato del dono ricevuto per il quale cercherò, nella mia specifica missione pastorale che mai oltrepassa le sue scelte e competenze, di rendere onore, nella semplicità e nel coraggio, di credere ancora, anche quando i soprusi e le ingerenze indebite generano paura nel cuore di ogni uomo e donna che vive in questa Regione.
Grazie ancora, con cuore di padre e fratello che cammina con Voi
Volevo solo dirti che ci sono

di Carlo Andreoli


Fateci caso. Oramai buona parte della pubblicità, che scorre sul video ed impazza nella radio, è dedicata ai telefonini cellulari. Sembra che il problema più importante delle famiglie italiane non sia tanto come arrivare alla fine del mese senza debiti (e senza peccati); ma quale sia la tariffa più opportuna per il proprio telefonino. Questa specie di sorcio elettronico, sempre più piccolo e sempre più scaltro, sbuca fuori dal giubbotto dei teen-agers, dalla borsa delle ladies, dal doppiopetto rigato dei managers e finanche dalla tasca interna del clergyman di compiti reverendi. Sembra che nessuno sappia più farne a meno. Molti ignorano come fare a pagare il mutuo in scadenza della prima casa; ma hanno le idee chiare sul bouquet di tariffe che renda fluido e conveniente il loro traffico telefonico. A scuola, la lezione su Parmenide è disturbata da continui squilli e squittii; che il docente à la page tollera con noncuranza, dato che pure lui è armato dell’inesorabile ordigno. In treno, la persona più educata, al minimo frullo del suo apparecchio, che vibra assieme al battito del suo cuore, guadagna il corridoio; e sussurra sottovoce frasi che s’indovinano di necessaria importanza. A messa, durante la funzione, un allegro trillo scappa talora fuori dai banchi assiepati, raggelando per un po’ il raccoglimento dei fedeli e la locutio del celebrante; e qualcuno s’allontana, con malcelata fretta, verso la navata minore, bisbigliando frasi segretate dal cavo della mano. Un effetto involontario di psicosi collettiva lo si prova, poi, percorrendo i marciapiedi di città nelle ore frenetiche di punta: quando uomini, che diresti per bene e di sano comprendonio, parlano da soli d’affari dei più vari (quotazioni di borsa, ricorsi in tribunale, questioni di cuore); confessando tutto all’auricolare che portano conficcato, in bella mostra, nell’orecchio. E’ pur vero che c’è ancora qualche apocalittico che si rifiuta ostinatamente di servirsi di quest’orpello tecnologico; e che a casa, nel proprio domicilio, custodisce su una mensola démodé del proprio corridoio un apparecchio telefonico dei bei tempi andati: unico vessillo di desueta comunicazione a distanza. Ma questi è visto chiaramente come una bestia rara; un cavernicolo ante litteram; che si mostra ingrato dei piacevoli ritrovati che il progresso tecnologico ci ammannisce generosamente.
Ma, alla buon’ora, sarà mai possibile vivere oggi senza telefonino cellulare; ed avere pure la pretesa d’essere felici? Se s’ascoltasse, per un attimo, il resoconto delle molte telefonate che viaggiano nell’etere, si potrebbe forse rispondere di sì. Giacché esse, all’infuori di casi eccezionali, comunicano propriamente il nulla: sotto forma d’inezie, carinerie, frasi di circostanze e melensi convenevoli. Essendo l’unico dato certo che si comunica il luogo in cui si è. Per molti, infatti, se non per tutti, la funzione peculiare del cellulare consiste nel comunicare agli altri che si è, hic et nunc, in un certo luogo del tempo e dello spazio; ed ogni altro messaggio suppletivo passa, per così dire, in subordine.

Essere cercati sul telefonino – sia pure con un solo squillo – dà un senso di gratifica e testimonia della propria esistenza in vita più di qualsivoglia certificato d’anagrafe. Se il numero di squilli e di relativi messaggi diventa poi esuberante; si può essere quasi certi d’un raggiunto stato sociale – tra i ragazzi del muretto come nel pieno d’un consiglio comunale o aziendale. Essere molto ricercato equivale infatti ad una patente dichiarazione di valore personale; acclarata, oltre tutto, coram populo: sotto gli occhi – e le orecchie – di tutti. Gli esperti di semiotica direbbero che s’è spostato, in maniera aberrante, il valore del messaggio: dal suo contenuto, spesso ininfluente, alla speciosità del mezzo ed alla sua ritualità convenzionale; ammantate oltre tutto d’una maliosa esperienza di modernità. Molte madri pensano in questo modo di controllare a distanza i propri figli; i superiori, i propri sottoposti; le mogli, i mariti e viceversa. Un surrogato, insomma, delle relazioni umane; che però spesso rimane solo nell’aria. E mai supplirà – si vuole credere - alla franchezza d’uno sguardo ed al calore d’un abbraccio. Perché gli affetti, diversamente dalle parole, non viaggiano nell’etere. Bisogna sperimentarli a tu per tu: stando l’uno di fronte all’altro: nella gioia, come nella sofferenza.
Due immagini e due domande scomode

di Francesco Grosso

Non c’è niente di più falso di ciò che appare evidente, e questo, nell’Epoca dell’Immagine, è paradossalmente sempre più vero. Eppure, ogni tanto succede che un’immagine, magari attraverso l’Ovunque planetario della Rete, riesca a bucare il velo delle distorsioni e degli accomodamenti, riesca a penetrare l’etere senza incappare in filtri o in contestualizzazioni fraudolente, e a crearsi da sola un contesto, facendo leva sulla sua semplice forza descrittiva. È di un’immagine, anzi di un «fermo-immagine» di questo tipo, ricavato da un video diffuso nei giorni scorsi dalla tv «Abc News», che intendo parlare.
Andiamo con ordine. Il video riprende una specie di giuramento, o meglio, di consacrazione al martirio di trecento combattenti taliban. La solennità del momento si coglie dall’atteggiamento compostissimo, ieratico quasi, di tutti i partecipanti. A dire il vero, il tono odiosamente paternalista ostentato dagli officianti del rito (alti esponenti taliban) richiama quasi una sorta di cerimonia di premiazione, di conferimento di un titolo accademico. Nei ritmi e nelle forme sembra quasi scimmiottare quelle sciocche cerimonie di fine anno nei college americani – manca il lancio del cappello finale, mi si potrebbe obiettare.
Il set scelto dai registi occulti dell’oscena parodia non è casuale. Il paesaggio che fa da sfondo contribuisce a dare solennità al tutto. La telecamera non può fare a meno di cogliere l’indescrivibile bellezza del paesaggio circostante; una bellezza quasi minerale, assoluta, primordiale. Montagne rabbiosamente tosate dalla furia dei venti, cieli di un azzurro crudele ed opprimente. Siamo nel territorio dei pastun, quella vasta regione a cavallo fra Afghanistan e Pakistan, in cui da anni l’ideologia del jihad globale ha trovato terreno fertilissimo; zona nella quale la sconfitta dei taliban ad opera della coalizione guidata nel 2001 dagli Stati Uniti è stata solo una lontana eco. Tuttora laggiù le disposizioni e le leggi emanate dal governo insediato a Kabul sono refoli di vento che si perdono per gli altipiani arroventati.
La qualità delle immagini è buona, la regia è addirittura ottima. Abilmente la telecamera miscela il generale col particolare, concentrandosi ora sulle figure dei maggiorenti, mentre scandiscono frasi di morte e di odio verso l’occidente, ora sul gruppo dei trecento, tutti compostamente in ascolto, seduti. Benché i volti siano completamente coperti dai drappi neri dei turbanti, è facile accorgersi che molti dei «diplomandi» non sono nient’altro che ragazzini. Lo si intuisce dalla loro incapacità di stare fermi, realmente composti; alcuni muovono nervosamente le mani, come a volerne detergere il sudore che le bagna – sì, proprio come fanno i nostri adolescenti nel giorno degli esami.
A voler giudicare il tutto con piglio da critico cinematografico, c’è da rilevare che al suggestivo cast, alla soddisfacente fotografia e all’ottima regia fanno da contraltare testi decisamente scadenti. Distruzione, vendetta, eroismo, vittoria finale, teste da mozzare… Il solito rosario di minacce sconnesse, le solite frasi alle quali in occidente chiunque legga un quotidiano o guardi un telegiornale è ormai assuefatto. Altro difetto: il finale non è in crescendo. Gli ultimi fotogrammi sono dedicati alla smobilitazione che segue la cerimonia, facendo in questo modo torto alla solennità che la cerimonia stessa aveva profuso. Addirittura vengono ripresi alcuni combattenti che, come dopo un «ciak!», si liberano dei drappi e mostrano il volto. Ed è a questo punto che compare, per diversi istanti, in primo piano, un bambino. Testa dritta, portamento fiero; lo sguardo è quello serissimo dei bambini quando sanno di stare facendo una cosa da adulti. Non si tratta di una comparsa, ma di uno degli attori protagonisti: lui è nel gruppo dei trecento, è uno dei combattenti pronti ad immolarsi per fare a pezzi il maggior numero possibile di soldati o di civili occidentali. Ha giurato di farlo, e probabilmente lo farà.
Un bambino. Non sono affatto sicuro che, come hanno affermato quasi tutti i media in occidente, abbia dodici o tredici anni. Da quelle parti si cresce molto in fretta: potrebbe averne anche due o tre in meno. Ci sono foto che ritraggono anziani abitanti di Kabul ad angoli di strada, e quegli anziani hanno 35 o 37 anni. Diciamo così, allora: i tratti del volto avvicinano quel bambino alla fisionomia di un bambino occidentale di dodici anni. Evitiamo l’etnocentrismo «fisionomista». Anche se la sostanza non cambierebbe molto: quell’indugiare della telecamera su di lui, sulle sue guance logicamente prive di barba, è comunque osceno, come è osceno e farabutto ogni tentativo degli adulti di catturare e derubare l’infanzia per farne carne da cannone o da audience.
Il filmino, comunque, si ferma qui. Fermiamoci qui anche noi. Soffermiamoci sulla tragica solennità di quel volto, su quell’espressione furente di chi ha troppo sofferto e che troppo in fretta è cresciuto. Quel bambino, col suo giuramento, si è definitivamente lasciato alle spalle il mondo affascinante dei giochi e dei sogni, per entrare nel labirinto spaventoso degli adulti che odiano e che fanno la guerra. È diventato una sorta di zombie, come i «devotus» romani, che si consacravano alla morte in battaglia e da quel momento entravano in una dimensione a metà fra vita e morte. Quel bambino non è ancora morto, ma non è neppure più vivo.
Per quanto ci si sforzi, nell’immagine non è possibile trovare traccia del cappio che lo ha trascinato sul set: il suo collo sottile appare libero; né tantomeno c’è traccia dei furfanti che lo hanno indottrinato, esaltato, nutrito di odio per anni, e infine accompagnato in quella remota valle afgana, a giurare di farsi a pezzi per fare a pezzi qualcuno. Perché sì, sarebbe stupido affermare che il volto di quel bambino è un mero prodotto dei bombardamenti – sempre più sconsiderati, comunque, e sempre più controproducenti – dell’aviazione statunitense. Quel bambino è logicamente anche il prodotto di una ideologia, di un brodo in cui non è possibile discernere tutti gli ingredienti.
Ma la riflessione che voglio fare è un’altra. Non so bene per quale motivo, ma guardando il bambino-bomba mi è venuta in mente un’altra immagine di infanzia rubata; un’immagine che apparentemente non c’entra nulla.
È la foto che ha vinto il premio Pulitzer nel 1973: siamo in Vietnam, l’anno prima, e una bambina di nove anni – Kim Phuc, il suo nome – corre nel nulla, completamente nuda, visetto orribilmente contratto dal dolore, braccia spalancate come fosse crocifissa. Il suo corpo è stato appena ustionato e devastato dal napalm, lanciato sul suo villaggio dall’aviazione statunitense. Nei suoi occhi non c’è nessuna speranza: qualcuno ha detto che in quella foto c’è «l’Urlo di Munch vivente». La domanda che voglio porre è: qualche anno dopo il fatto fissato per sempre in quell’istantanea, avremmo potuto ritrovarci Kim, nella boscaglia, in un’altra foto, o magari in un filmino propagandistico, mentre giura di essere pronta ad ammazzare quanti più americani possibile? Avremmo potuto ritrovarci davanti agli occhi l’epilogo tragico, cioè la bambina in mille pezzi, dopo aver trascinato con sé decine di innocenti, in una qualsiasi città vietnamita o statunitense? Avremmo potuto, certo, ma non è stato così. Kim oggi ha 44 anni, un faccione bonario, una famiglia felice; vive in Canada, e fa l’ambasciatrice di pace per l’Unicef. Gira il mondo per raccontare quanto facciano schifo le guerre, soprattutto quanto facciano schifo le guerre che si accaniscono contro i bambini.
E l’immagine del bambino-bomba del 2007 cosa c’entra? C’entra, eccome. Nella foto di Kim non era stampato nessun destino: avrebbe potuto diventare una psicopatica assetata di sangue, e invece è diventata una bandiera della Pace. Di Kim non abbiamo nessuna foto-testamento, perché lei non si è mai consacrata a nessuna strage. Dell’anonimo bambino afgano, invece, l’immagine-testamento ce l’abbiamo. E allora? Non manca qualcosa? Sì che manca: manca la foto del bambino qualche anno fa, quando ha subito, o visto subire, una soperchieria talmente grande da iniettargli odio a sufficienza per farlo sentire assolutamente sicuro che la scelta della morte al tritolo è la scelta giusta, quella per cui è valsa la pena addestrarsi. Quel bambino deve essere cresciuto in un contesto tale da far diventare il suo odio subito adulto – e tutti sappiamo quanto odio siano in grado di produrre gli adulti.
Voglio dire: siamo in presenza di due immagini speculari. C’è una opposizione statica e una dinamica. Da una parte c’è la foto all’inizio, e poi non abbiamo quella della fine, perché il finale truculento non c’è stato. Qui invece abbiamo l’immagine finale, quella che prelude alla strage, ma non abbiamo la foto all’inizio, o meglio, non abbiamo la sequenza di foto, in grado di rappresentarci cosa è stata la vita di quel bambino, fino ad ora. Non sappiamo nulla, di lui. Sappiamo solo che ci siamo persi qualcosa: forse non c’era nessun fotografo, nei paraggi, mentre lui raccoglieva i brandelli dei suoi familiari fra le rovine della sua casa bombardata dai liberatori occidentali; forse nessuno gli ha dovuto spiegare cosa stessero facendo, di là, con la sua mamma, i soldati dell’Alleanza del Nord, quei tetri guerrieri ai quali nel 2001 l’occidente ha provveduto a consegnare una patente di legittimità.
Del bambino-bomba conosciamo soltanto l’odio che ci trasmette il suo sguardo, soltanto l’istinto nichilista che lo ha reso un mero oggetto nelle mani di adulti criminali. In ogni caso, temo che all’origine di quell’odio deve esserci stato qualcosa che ci chiama direttamente in causa, qualcosa che chiama in causa i tanti errori e i tanti orrori che l’occidente ha compiuto, per anni, da quelle parti. Seconda domanda: avremmo potuto fare qualcosa, per lui, prima di ritrovarcelo in quel filmino? Io credo di sì.
A Kim avrebbe potuto succedere di cadere nell’inferno, e non è successo. Dunque, anche al piccolo aspirante stragista poteva non succedere. Ora è tardi, ora dobbiamo soltanto fuggirlo come fuggiremmo un demonio.
Le due immagini, affiancate, provocano una strana sensazione. Sovrapposte, poi, finiscono per risultare sconvolgenti – lo sono già singolarmente, in realtà. Ci vuole coraggio, per guardarle insieme, per «pensarle» insieme. Ma è un coraggio che da qualche parte bisognerà trovare. Non lo dobbiamo solo a Kim Phuc, o al bambino-bomba: lo dobbiamo a noi stessi.