mercoledì 16 maggio 2007

Sovranità a rischio

di Gaetano Bencivinni

La sovranità dello Stato è a rischio nelle realtà sociali a forte densità mafiosa.E’ questo il filo conduttore del libretto Sovranità a rischio, edito dal Laboratorio Sperimentale G. Losardo, che sarà presentato il 23 giugno a Cetraro in occasione del Premio Losardo 2007 (Giornalismo, e Arti Figurative).Gli autori si propongono di fornire una chiave interpretativa del fenomeno malavitoso, avvalendosi del modello teorico che percorre la sentenza Azimut. Il lavoro è destinato alle nuove generazioni nell’ambito dell’educazione alla legalità, obiettivo prioritario dell’associazione Losardo.Il volume è arricchito dalla prefazione di Silvio Gambino, preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università della Calabria.« Quando educhiamo alla legalità i nostri giovani, come dobbiamo continuare a fare,beninteso, scrive Gambino, dobbiamo ben spiegare ai giovani cittadini cosa possono e cosa debbono attendersi dallo Stato. Se ciò non sarà fatto il rischio evidente è quello che la sicurezza giuridica diviene un termine evanescente e con esso la stessa nozione di sovranità dello stato. Per parlare di quest’ultima nozione, così, occorre sottolineare che i cittadini che vivono nei territori piegati dalla mafia ai suoi voleri sono titolari di un diritto che, per essere effettivamente esigibile, impone che lo stato assicuri una presenza attiva nelle regioni meridionali e che sia percepita chiaramente come impeditiva dei loschi affari perseguiti, nel quadro di tutte le garanzie accordate dal ‘giusto processo’ per gli accusati di reati di mafia».

Intervista a Mario Monicelli

di Matilde Tortora

Il suo recente film “Le rose del deserto” è tratto dal romanzo “Il deserto della Libia” di Mario Tobino e dal brano “Il soldato Sanna” che è in “Guerra d’Albania” di Giancarlo Fusco. Ha conosciuto personalmente Mario Tobino, Giancarlo Fusco, e l’altro scrittore viareggino Manlio Cancogni?
Sì, tutti e tre, soprattutto Fusco e Cancogni li ho anche frequentati, essendo noi coetanei nell’area di Viareggio, in Versilia; come lei saprà, anch’io sono di Viareggio.

È la prima volta che un suo film è tratto da opere letterarie?
Non è la prima volta, dei miei 65 film, altri cinque o sei sono stati tratti da opere letterarie, “Il male oscuro” dall’omonimo libro di Giuseppe Berto, poi da Benedetto Croce il mio “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”, l’episodio “Renzo e Luciana” da un racconto di Italo Calvino, che è nel film “Boccaccio 70”, film che girammo in quattro diversi episodi io, Visconti, De Sica, Fellini, poi ancora da Cechov quel racconto in cui un impiegato a teatro starnuta colpendo inavvertitamente la nuca del suo capufficio, un film tragico-comico, come è nel mio stile.

Lei ha mai pensato di fare lo scrittore?
Certo, vi ho pensato durante l’adolescenza. Ho anche debuttato per conto mio, ma non era il caso, ho ripiegato su un altro mezzo di espressione, le immagini in movimento, motion pictures, più alla portata, che allora stava nascendo, qualcosa che stava tra il circo equestre e il baraccone, il cinema.Tobino era medico e scrittore. Nel romanzo c’è la sua esperienza di ufficiale medico.

Il cinema è anche medicamento?
Può anche darsi, come tutto quello che attiene all’arte, alla fantasia e alla narrazione. Ma non sono nemmeno sicuro che il cinema sia arte poi.

E bella anche la locandina del suo film. Lei interviene e vuole approvare le locandine dei suoi film?
La locandina de “Le rose del deserto” è opera di Chiara Rapaccini, esperta di grafica, autrice anche di libri illustrati per bambini. Ha seguito le riprese del film, è stata sul set con noi e inoltre i disegni, gli appunti che ha preso durante la realizzazione del film, li ha appena pubblicati in un libro che s’intitola “Le mosche del deserto”, che proprio in questi giorni è in libreria.Quanto alla sua domanda, le rispondo che, be’ sì, sono intervenuto, ma non spetta a me l’ultima parola, spetta soprattutto alla distribuzione, che in questo caso è Mikado. E così anche per gli altri miei film, ciascuno ha fatto il suo lavoro.

La mente non può che riandare al suo grande film “La grande guerra”, del 1959. Dove lo giraste?
Sui luoghi stessi della grande guerra, nel Friuli, tra Gemona e Venzone, sul fronte stesso della guerra, c’erano ancora le tracce delle trincee, d’altronde erano passati davvero solo pochi anni dalla guerra.

Lei ha fatto la guerra in Libia?
Tre anni, dal ’40 al ’43, non in Libia però, ero stato mandato in Jugoslavia. Sa, allora, i giovani, a cominciare da quelli mandati in Libia, andavano nell’Oriente, da Mille e una notte, c’era una aspettativa, un’ ignoranza innocente, credevano di stare lì per consolidare una colonia italiana, come benefattori e non come nemici. Io ero meno innocente però, venivo da una famiglia antifascista, noi volevamo che l’Inghilterra vincesse la guerra, che noi la perdessimo, pur capendo che le cose andavano malissimo. E però, è vero, in Libia c’ero stato quando era una nostra colonia, c’ero stato come aiuto regista di Augusto Genina, sul set del film “Lo squadrone bianco”.

Perché ha sentito il desiderio di girare questo film “Le rose del deserto”?
Perché nel cinema italiano ci sono troppi pochi film su questa guerra. La memoria è una cosa importante, sentivo di essere sollecitato a questo. E poi c’è il libro di Tobino che desideravo da anni di portare sullo schermo.

I dialoghi sono del romanzo o sono suoi?
Una volta che avevo scritto il treatment, volevo leggerlo a una coppia di sceneggiatori giovani, mi hanno suggerito i nomi di Alessandro Bencivenni e Domenico Sverni, mi sono trovato benissimo con loro. Sì, i dialoghi sono tutti miei. C’è però alla base la lingua meravigliosa di Tobino, a tratti un toscano trecentesco, anche nel suo romanzo c’è umorismo, andrebbe proprio ristampato il romanzo di Tobino. Ad esempio il personaggio poi interpretato da Tatti Sanguineti, con la fissa dei cimiteri, c’è già nel libro. Tatti è uno storico del cinema, non è un attore, nel film fa molto bene questo personaggio.

Anche per “La grande guerra”, accanto a Sordi e Tognazzi, nei due indimenticabili ruoli, lei scelse di fare recitare attori non professionisti, ma già noti in altri campi.
Sì, è così. Scelsi per certi parti da caratterista Tiberio Mitri, che era stato un pugile famoso e Nicola Arigliano, un cantante noto. Scelsi anche persone sconosciute. Per la parte di un parroco scelsi anche di farlo impersonare a Compagnoni che era un alpinista celeberrimo. C’era pure la Mangano, nel personaggio di una prostituta che l’esercito organizzava di far arrivare come un “soccorso” per i soldati.
Ne “Le rose del deserto” oltre ad Haber, ci sono Michele Placido e Giorgio Pasotti protagonisti. Placido fa la parte di un frate italiano Fra’ Simeone da Cosimo, che chiede la collaborazione dei medici italiani per una missione umanitaria. Tutti bravissimi.

Nel suo film il maggiore Stefano Strucchi, interpretato da Alessandro Haber, legge Poliziano, cita dei versi di Campana, di Leopardi, di Omero, è un intellettuale spaesato che scrive lettere alla moglie, è colui che per salvare proprio queste lettere della moglie, torna indietro e trova la morte. Lei ha scritto molte lettere nella sua vita?
Credo di averne scritto pochissime, le signore con le quali ho avuto un rapporto affettivo, sostengono che ne abbia scritte molte, ma io non credo, non credo proprio.Che rapporto ha con gli oggetti?Non conservo, no, distruggo tutto, non mi porto dietro niente, ho cambiato 27 volte casa e non conservo né libri, né dischi, né oggetti.

Suo padre era uno scrittore, un drammaturgo.
Sì, lo ero, ha scritto diverse commedie, era anche autore di racconti. Egli era di Ostiglia, provincia di Mantova, anche mia madre era di Ostiglia, un suo libro di racconti ad esempio s’intitolava “Aia, madama”, comprendeva racconti di contadini, primi ‘900, che si radunavano a fare feste, in quei racconti si raccontava la vita di Ostiglia. Un amico mi ha da poco regalato un libro di mio padre, “Crepuscolo” pubblicato da Mondatori nel 1920, un libro che egli ha trovato su di una bancarella, contiene racconti molto crepuscolari per l’appunto, anche erotici. Di mio padre ricordo anche due libri per bambini “Nullino” e “Stellina” del 12 -15, pubblicati da Mondadori; sa, erano imparentati, Andreina la sorella di mio padre aveva sposato Arnoldo Mondadori.

Nel suo film ci sono pochi colori, tutto appare molto poco romantico, palme aride, un certo squallore, i colori sono acidi, un immaginario visivo poco convenzionale del deserto, cui poco ci hanno abituati gli altri film ambientati nel deserto.Mi viene da domandarle: Lei preferisce i film in bianco e nero o a colori?
E infatti il deserto non è romantico, volevo che desse l’idea dello squallore, che respingesse, che il deserto sia amorevole questa è l’idea che soprattutto le donne ne hanno, ma il deserto è davvero altra cosa. Quanto alla sua domanda i film non solo li preferisco in bianco e nero, ma anche muti. Ritengo che il cinema ha cominciato a corrompersi con l’invenzione della colonna sonora.

Le colonne sonore dei suoi film sono state però importanti.
Sì, è vero, grazie a Rustichelli che era un ottimo musicista. E le sue musiche sono parte integrante del successo dei miei film.

Quali sono adesso i suoi progetti. Girerà un altro film?
No, non ho in progetto un altro film, ho in progetto di fare invece un viaggio. Andrò a Teheran in febbraio, sono stato invitato da l regista Kiarostami, per conoscere la Persia, quello che insomma un tempo si chiamava Persia, andrò in Iran.

Per Alberto Grifi

di Matilde Tortora

Alberto Grifi è morto. Il mondo del cinema perde con lui un geniale regista e noi un caro amico che avemmo modo d’intervistare nel settembre scorso per Controcorrenteonline; la sua intervista, data l’intensità, lo spessore intellettuale e la grande lezione d‘amore per il cinema e l’attenzione al lavoro degli altri che essa ci donò, confluì non a caso e concluse le “Parole d’Amore” che sono divenute un libro pubblicato di lì a poco, ad opera del Laboratorio Sperimentale G. Losardo. Nato nel 1938, Alberto aveva ereditato dal padre la passione del costruire delle speciali macchine da presa, che gli consentirono di essere, tra i primissimi, in Italia, autori di “cinema sperimentale”, d’altronde egli era pittore, fonico, attore, creatore di dispositivi video-cinematografici, quali “il vidigrafo”, competenze tali che gli consentirono di divenire autore di film sperimentali, che sono stati capisaldi della storia del cinema italiano e divenuti noti anche fuori d’Italia, per l’attenzione meritata in Festival importanti Oltralpe.Noi tutti rivolgiamo ad Alberto il nostro saluto: Egli ci lascia non solo il suo prezioso lavoro, ma anche la sua indomita passione, l’esempio del suo impegno coerente e coraggioso di chi ha sempre inteso mirare al profondo delle cose, rivelandone aspetti, che senza di lui, non sarebbero stati di tale impatto artistico e finalmente a noi tutti disvelate.

Essere e avere

di Carlo Andreoli

Noi, forse, non ce ne accorgiamo; ma l’esistenza di tutti noi è conformata, in diversa gradazione, sulle modalità dell’essere o dell’avere. Il brillante paradigma fu spiegato, in maniera mirabile e accurata, da Erich Fromm in un suo famoso saggio. Ma lo stesso Fromm riconobbe che tale scelta del comportamento umano, che si riflette poi sul nostro intero sistema di vita, era stata già notata dai maestri del pensiero dell’antichità. Per trovarne quindi il seguito in pensatori diversi; che andavano dai mistici cristiani, come Maestro Eckhart, fino ai razionalisti e a Marx; il quale concludeva che “meno si è, meno si esprime la propria vita; più si ha e più è alienata la propria vita”.Ma com’è possibile spiegare brevemente un dilemma tanto arduo quanto ostico a vedersi ai nostri occhi; abbacinati come sono dai riflessi abbaglianti e lusinghevoli che il corso degli eventi ci propone, sotto forma spesso di progresso umano? Come sempre, le questioni sono grandi se grande è pure la confusione d’animo di chi intende indagarle; giacché la pura ingenuità d’un bambino riuscirebbe già da sola a percepirne l’elementare essenza.Diciamo, allora, che l’uomo - a seconda del proprio istinto, della propria sensibilità, della propria cultura e delle sollecitazioni sociali che riceve – tende a sostituire inesorabilmente tutte le qualità del proprio essere, che ritiene manchevoli o comunque inadeguate per raggiungere da sole un risultato di vita, con dei beni materiali. Che, essendo la manifestazione concreta d’un avere, gli danno la percezione di valere più o meno qualcosa, a secondo del loro numero e della loro pretesa qualità. Fino a giungere all’illusione che l’esito finale di questa acquisizione – il suo tenore di vita, il suo rango sociale, la sua stessa ambizione – sia l’autentica espressione della sua personalità: il frutto, insomma, d’una vita spesa bene; come spesso si sente dire, proferendo quasi una bestemmia.E’ come se la finitezza presunta del proprio essere, e della propria personalità, trovasse una ricompensa adeguata nella congerie di beni e di traguardi sociali che ci s’affanna a rincorrere: supposti, invece, come segno certo del proprio merito e premio della benefica ambizione personale.Schopenhauer avrebbe detto in proposito, con una punta di malcelato orgoglio, che chi non ha una personalità da esibire, mostra allora il suo reddito ed il suo vano tenore di vita. Ma la scelta tra essere ed avere si lascia dietro una serie di relitti; che non sono soltanto gli affetti più sinceri e i buoni sentimenti; quanto l’essenza stessa della vita umana ed il valore che ad essa ci si propone d’assegnare. Si prefigura allora una vera e propria ideologia dell’avere che, sotto le false spoglie spesso del lavoro umano e dei suoi successi, sacrifica inesorabilmente le esigenze elementari della personalità. Fino a pervenire, come notava appunto Marx, ad una vera propria alienazione: in cui sono i beni materiali e la sete di successo a possedere l’uomo e decidere le sorti ed il percorso della sua vita intera.Fromm concludeva il proprio saggio preconizzando la formazione d’un “uomo nuovo”; in cui fosse divenuta prevalente “la fiducia fondata sulla fede in ciò che si è; anziché sul proprio desiderio di avere, di possedere, di controllare il mondo, divenendo così schiavo dei propri possessi”.Ma si rendeva pure conto che solo pochi avrebbero potuto attingere un simile obiettivo; perché la tensione incalzante dell’ambizione dell’umana “non è che un’altra forma di bramosia, un’altra versione dell’avere”. Una meta ardua, quindi, da raggiungere? Intanto, averne cognizione serve già da solo a mitigarne gli eccessi; ed evitare che la foga d’avere e di raggiungere mirabili obiettivi non ci faccia calpestare la dignità nostra e di chi ci vive a fianco. Meglio ancora sarebbe se si capisse, come diceva Lao-Tse, che la vera via del fare è quella in salita ma sicura dell’essere e non quella piana ma pericolosa dell’avere

L'amore al tempo dei lucchetti

Di Francesco Grosso

L’hanno chiamato «Family day», per aggiungere un tocco di internazionalità all’evento; ma un più prosaico e comprensibile «Giorno della Famiglia» sarebbe risultato assai più efficace, per consentire a chiunque di farsi un’idea. La manifestazione tenutasi a Roma sabato 12 maggio è stata in realtà italiana al 100%; genuinamente nostrana, orgogliosamente “nazional-popolare”, come si dice oggi. «La famiglia prima di tutto, la famiglia sopra tutto», recitava uno degli slogan più utilizzati, in questi giorni, dai sostenitori dell’iniziativa – anche uomini politici che alla famiglia devono tenere molto, se è vero che ognuno di loro ne ha avuto più di una, prima di scegliere quella giusta. La famiglia prima di tutto, certo: occorre conservarne l’unità e l’armonia, occorre proteggerla dalle influenze esterne; anche quando la famiglia è il luogo dei peggiori abusi sui suoi componenti più indifesi (bambini, anziani, donne, soprattutto: è tristemente noto che il 70% delle violenze sessuali sono consumate all’interno delle mura domestiche), anche quando la famiglia va in pezzi perché non regge più l’urto della modernità, anche quando agli inquilini del piano di sotto arriva l’eco di furibonde liti, o di vigliacchi atteggiamenti da società patriarcale: «Ma cosa vuoi fare, non vorrai mica sfasciare una famiglia?» Deve essere questo il motivo che spinge decine di medici, nei pronto soccorsi italiani, a non avvisare la forza pubblica né i servizi sociali, dopo avere medicato giovani donne che nel corpo portano i segni di certe strane cadute dalle scale. «Ma cosa vuoi fare, non vorrai mica sfasciare una famiglia?» Semplicemente, inconsapevolmente, quei medici annusano l’aria che tira; l’aria, per esempio, veicolata dall’Elettrodomestico – vero e proprio Grande Fratello, vera e definitiva arma di sterminio di massa dei cervelli – che sempre più spesso trasmette melense fiction intrise di familismo amorale e bigotto; fiction che invitano i genitori ad abbracciarsi, i figli ad obbedire senza discutere, i tinelli a rinserrarsi in una tranquilla, riposante, perpetua intimità familiare. Come se il mondo non fosse quel bailamme assordante che è, quell’indistinto brusio di voci, quel pullulare di volti che ci affiancano, ci rincorrono, ci affascinano, ci attraggono, ci respingono. L’amore, per sua stessa natura, è volubile, mutevole; varia col variare delle stagioni della vita, asseconda la luce del giorno; entra nelle vite e le brucia, rompe i muri e gli argini, frange le onde della ragione. Il registro dell’amore è insomma un registro polifonico, stonato, fracassone… E qualcuno vorrebbe farci credere, adesso, dopo tante lotte e tante conquiste sociali costate sangue e sofferenze a tanti che ci hanno preceduto, che l’amore non sia altro che quella musichetta monocorde, quel ticchettare monotono di lancette, quel semolino insignificante così mirabilmente eternato da Luciano Bianciardi in «La solita zuppa». A pensarci bene, è un segnale assai preoccupante che, inseguendo un fenomeno editorial-cinematografico costruito a tavolino da occhiuti sceneggiatori, torme di adolescenti abbiano preso l’abitudine di giurarsi amore eterno attaccando pesanti lucchetti ai lampioni di varie città italiane. E sarà sempre più difficile, per quegli adolescenti, capire che attaccando lucchetti stanno preparandosi a vivere ancora più incatenati di quanto non stiano vivendo i loro genitori. Particolarmente assurdo, poi, che in questi giorni la Famiglia sia stata usata come supremo baluardo contro quella proposta di legge – assai timida, in verità, nella sostanza – che mira ad estendere alcuni diritti basilari alle cosiddette coppie di fatto. Il diritto di assistere, nel letto da cui partirà per l’ultimo viaggio, la persona che si è amata per tutta la vita, il diritto di continuare ad abitare nella casa in cui si è abitato insieme per anni, il diritto di condividere ufficialmente quei beni che di fatto si condividono da sempre… Sarebbero queste, le minacce per la famiglia, per la sacra, monolitica, intoccabile famiglia italiana? Davvero l’estensione di certi diritti a tutti può nuocere a chi di quei diritti godeva in precedenza? La coppie di fatto, per chi non lo sapesse o non volesse saperlo, sono ormai parte integrante della vita quotidiana. È sufficiente guardarsi intorno, compiere una rudimentale indagine nel proprio condominio, o nel proprio quartiere. Di cosa, dunque, stiamo parlando? Del diritto di camminare insieme ad una persona anche se non si vuole, o non si può, affrontare alcun passo ufficiale? Del diritto di amarla, di sostenerla, di provare per lei – o per lui – tenerezza o pietà? E proprio la pietà, dovrebbe essere la stella polare di chi fa del Vangelo la propria bandiera. La pietà per tutti, anche per chi, secondo il mio personalissimo canone, sbaglia: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Neppure io ti condanno…» Ma forse, con l’ennesima dimostrazione della frattura che c’è nel corpo sociale italiano, andata in scena nella piazza, abbiamo avuto conferma che stiamo assistendo ad un vistoso scollamento della Chiesa, non solo dalle contingenze della quotidianità, ma dai suoi stessi insegnamenti. «Guai a voi…», come diceva il Maestro, si può dire solo se si ha la coscienza pulita. La figura di Gesù, così come ce la raccontano con efficacissima semplicità i Vangeli, si erge come estremo baluardo contro l’intolleranza e l’ottusità delle gerarchie religiose a lui contemporanee. Splendide, anche per chi non crede, appaiono la sua coerenza, la sua tenerissima compassione verso tutti, la sua capacità di indagare i mille angoli della vita. Piace immaginare il Maestro incuriosito dalle cose del mondo, attento ai bisogni veri della gente, divertito dall’allegro trambusto dei villaggi che attraversava. Splendido, e divinamente umano, appare il Gesù dubbioso e pensoso del Getsemani; i tratti coi quali l’evangelista Luca ci dipinge il Maestro in preda allo sconforto sono di una plasticità giottesca. Il Maestro ha vissuto i dubbi sulla sua pelle; quelli che oggi pretendono di parlare a nome suo, invece… «Io sono la via, la verità e la vita», diceva; ed ecco il punto. Prima di pretendere di essere la Verità, di farsi Verità assoluta, il Figlio diceva «la Via», diceva cioè una cosa semplice: prima di giungere bisogna camminare, al Padre si arriva attraverso una strada. E sulla strada, si sa, si fanno tanti incontri, le carovane si mischiano, le idee si intrecciano, le lingue si fondono, i pareri si conciliano, le abitudini si compenetrano. Poi, ma solo poi, c’è la Verità; alla Verità si perviene dopo un lungo cammino. E comunque, subito dopo Via e Verità c’è la Vita: è con la Vita e le sue mille sfumature che gli uomini e le donne devono fare i conti. Rimanendo chiusi nei Palazzi, invece, non si incontra nessuno, o meglio, si finisce per incontrare soltanto se stessi e le proprie sicurezze; nel chiuso delle Stanze, invece di apprendere l’arte dell’ascolto, si finisce per affinare solo l’arma del parlare sentenzioso e ampolloso. La comunicazione diventa a senso unico, la Parola finisce per verticalizzarsi, e dunque non si può che finire per esprimere sentenze fine a se stesse, sentenze che sanno, appunto, di chiuso e di vecchio. Davvero arrogante e ingiustificata, allora, appare la pretesa delle Gerarchie di sapere «intercettare il comune sentire.» Rinchiudendosi nelle proprie certezze non si intercetta proprio nulla, anzi: ci si preclude la possibilità di poter scorgere Cristo nella quotidianità, e quindi in ogni essere umano, buono o cattivo o sposato o convivente o eterosessuale o omosessuale che sia. Permettetemi di concludere con incoerenza: dopo aver fatto l’elogio dell’incertezza, esprimo anch’io una certezza assoluta. In piazza, sabato 12 maggio, la guest star della manifestazione, l’ospite d’onore in nome del quale si sono scomodati a migliaia, non c’era. Non c’era perché non poteva esserci: il Gesù dei Vangeli era un tollerante, uno votato all’inclusione di tutti, non all’esclusione di qualcuno; uno davvero privo di pregiudizi, aperto al nuovo ed anzi acceso nemico del vecchiume della tradizione. Gesù era uno che andava a cena con peccatori, prostitute, proprietari terrieri, contadini, pescatori, semplici disgraziati; uno che alle fontane si fermava a parlare con le donne, che si esprimeva con parole chiare e comprensibili a tutti. Un cittadino del mondo, si potrebbe dire. E dunque, era ampiamente prevedibile una piazza gremita di difensori della fede; prevedibili le parole di qualche mamma, con bebè al seguito, che agitava lo spauracchio degli omosessuali sposati, prevedibili le frasi fatte sui bei tempi andati, sulla sana ipocrisia di una volta, prevedibili i vessilli di Cristo innalzati come invincibile baluardo contro l’immoralità. Tutto prevedibile, tutto calcolato; ma il manifestante tanto invocato, tranquilli, non c’era: che Gesù potesse scendere in piazza per accanirsi contro i diritti di qualcuno no, davvero, non era neppure lontanamente immaginabile. Vedendo le folle Gesù si sarebbe ritirato sulla Montagna. A meditare.

Sviluppo territoriale e finanziamento dell'innovazione

Di Vincenzo Gallo

Le storie di successo di imprese americane nel settore dell’informatica, come Microsoft, Apple e Google, credo meritino una riflessione.I giovani imprenditori che le hanno fondate, rispettivamente Billy Gates, Steve Jobs e Larry Page/Serge Brin, ora diventati tra gli uomini più ricchi del pianeta, hanno in comune il fatto che hanno trovato un ambiente scientifico, sociale e finanziario in grado di valorizzare a volte delle semplici tesi di laurea. Le loro ricerche hanno generato prima brevetti, poi micro imprese nate spesso in garages e, successivamente, aziende di grande successo. Come dimostra anche l’interessante libro sulla storia di “Google”, costituita solo nel 1998 da due ragazzi di 25 anni laureatesi a Stanford, che ha rivoluzionato Internet e ora vale più di Ford e General Motors, questi ragazzi non hanno utilizzato finanziamenti pubblici, come ad esempio quelli previsti dalla legge sull’imprenditoria giovanile in Italia.Hanno invece ottenuto finanziamenti privati da parte di società di venture capital, di fatto banche d’affari che gestiscono grandi fondi di investimento. Acquisiscono partecipazioni in imprese innovative in fase di avvio, di “start-up”, puntando a portarle sui mercati mondiali e alla quotazione in borsa.Naturalmente mettono in conto che solo una piccola quota dei loro investimenti avrà un ritorno, per cui hanno necessità di diversificare i rischi, puntando contemporaneamente su più iniziative.La storia di alcune imprese tedesche che operano nel settore delle energie alternative è analoga, visto che dieci anni fa non esistevano ed ora sono quotate in borsa, hanno a volte tassi di crescita annui del 50% e si stanno espandendo sui mercati internazionali.Anche tra i loro soci figurano società di venture capital, che ne hanno favorito lo sviluppo con rilevanti finanziamenti in varie fasi, ottenuti in tempi molto brevi.C’è da chiedersi come mai ciò non avvenga in Italia, tranne qualche rarissimo caso, come ad esempio quello di Tiscali o come quello relativo ad un nuovo farmaco messo a punto da un gruppo di ricercatori universitari, finanziati da un pool di investitori internazionali.Le banche d’affari italiane, infatti, investono quasi sempre in imprese che hanno già superato la fase di avvio, che è quella più rischiosa, e richiedono finanziamenti per il loro sviluppo.Al riguardo è interessante la notizia relativa ad una iniziativa della Regione Toscana, che sta lavorando alla costituzione di un fondo per il finanziamento di imprese, anche in fase di start-up, che dimostrino di avere progetti innovativi.Ne è stato discusso in un convegno sul tema “Innovazione dei territori e venture capital: modelli a confronto”, quanto mai attuale.Al riguardo forse è utile tenere conto anche dell’esperienza del progetto pilota “Investire nella Riviera dei Cedri”, della Comunità Montana del Medio Tirreno e del Pollino, con sede a Paola, di cui ho esperienza diretta per averlo promosso e coordinato.E’ da sottolineare che è difficile competere sui mercati internazionali se un progetto nato nel 1999 da un’ intesa tra la Comunità Montana e il Centro Ricerche Fiat, per sviluppare la filiera della ginestra e operare nel settore dei biomateriali non derivati dal petrolio, abbia ottenuto l’attenzione solo del Ministero della Ricerca Scientifica, che è riuscito ad erogare però un primo finanziamento nel 2004. Ciò in base ad un progetto presentato nel gennaio 2002 dal CRF e dall‘Università della Calabria, in collaborazione con la stessa Comunità Montana, che ha messo a disposizione anche un terreno di alcuni ettari per la sperimentazione agricola.La stessa Comunità Montana aveva dovuto supplire a questi ritardi e al mancato intervento di altre istituzioni, investendo 100 milioni di lire nel 2001 per avviare lo studio di fattibilità. Nel 2006 sono stati depositati due brevetti da parte dell’Università della Calabria e sono realizzati prototipi di vari prodotti con componenti della ginestra, anche in collaborazione con il Linificio Nazionale del Gruppo Marzotto, che ha realizzato un prototipo di filato di ginestra.Nonostante il peso dei partners che si è riusciti ad attrarre, il monitoraggio del progetto da parte di multinazionali come la Shell, molto interessata ai possibili sviluppi delle ricerche nel settore della bionergia, e le numerose richieste di imprese italiane ed estere che intendono ora sperimentare la fibra e i prototipi realizzati, è possibile che per mancanza di nuovi e, soprattutto, tempestivi finanziamenti per lo sviluppo del progetto di ricerca, si rischi di non valorizzare adeguatamente tutto ciò che è stato fatto finora.