sabato 29 dicembre 2007

Artisti siciliani ad Amantea

di Carlo Andreoli

L’arte del Tirreno Cosentino ha sempre ricevuto un contributo notevole dalla vicina Sicilia. E ci sono, anzi, paesi dove è possibile riscontrare una presenza particolare d’artisti siciliani. Com’è il caso d’Amantea.
Forse pochi sanno che per un triennio circa – dal 1457 al ’60 – è probabile che abbia avuto una bottega d’arte ad Amantea Antonello da Messina: uno dei maggiori pittori dell’Europa del Rinascimento. La notizia attende ancora chiarimenti. Ma è certo, ad esempio, che nel 1460 un vascello sia giunto ad Amantea per imbarcare l’intera famiglia del Maestro, servitù compresa, diretta alla volta di Messina. Circostanza che fa pensare che Antonello vi abbia soggiornato a lungo; mentre era impegnato in opere che ha lasciato anche in Calabria, come la famosa tavola del Museo di Reggio.
Nella Chiesa di S. Bernardino d’Amantea, poi, sono raccolte altre testimonianze notevoli d’arte siciliana.
Come la splendida scultura della ‘Madonna col Bambino’, eseguita nel 1505 da Antonello Gagini.
Il Gagini, che dimorava in quel tempo a Messina, è stato una delle massime espressioni della scultura del ‘500 nel Meridione d’Italia. Ha lasciato molti suoi lavori in Calabria. Ma la Madonna d’Amantea, per la sua delicatezza ed il fascino formale, è senza dubbio da ascriversi tra le sue cose migliori.
Un altro scultore messinese, Rinaldo Bonanno, che si muoveva nella sfera del Montorsoli, ha prodotto per l’Oratorio dei Nobili, che si trova attiguo alla Chiesa di S. Bernardino, un’altra opera piuttosto singolare.
Si tratta d’un altorilievo della ‘Nascita di Cristo’, eseguito intorno al 1570.
La Natività è sempre stato uno dei temi prediletti dell’arte d’ogni tempo. Ma questo che si trova ad Amantea, nell’Oratorio dei Nobili, raggiunge un risultato espressivo di grande suggestione. Le figure, levigate con morbidezza nel marmo bianco, riportano il tema della Nascita alla sua raccolta intimità; ed è difficile dimenticarne il senso di stupito splendore.
Un po’ piu tardi infine – tra il 1608 e il ’19 – un altro artista messinese, Pietro Barbalonga, architetto e scultore, operò ad Amantea; dove aveva una bottega e finì per morirvi poco dopo.
Barbalonga, sempre nella Chiesa di S.Bernardino, eseguì una serie di sculture nella Cappella Cavallo; ed alcuni adornamenti nella Cappella dei Nobili: lavori di cui oggi rimane purtroppo quasi niente.
Quel che resta è invece il contributo che l’arte siciliana del ‘500 e del ‘600 ha lasciato dalle nostre parti: svolgendo un’opera di contaminazione stilistica che sarà appresa e fatta propria dagli artisti calabresi.
Un segno della vivacità che, pur in tempi così difficili, la Calabria ed il Tirreno Cosentino hanno saputo vivere. Rendendo unico ed originale il suo patrimonio d’arte.


Radio1One
(Venerdì 28 Dicembre 2007)

Dal Caos al labirinto

di Gaetano Bencivinni

Il Caos c’è sempre stato. E’ quanto afferma il filosofo Epicarmo nel primo frammento di sicura attribuzione, che ci è pervenuto. Noto commediografo, vissuto tra il 550 e il 450 a. Cr., Epicarmo ha certamente contribuito a creare quel clima culturale, ricco di spunti speculativi, che ha preceduto gli albori della democrazia in Grecia.
Pochi frammenti, che tuttavia contengono input significativi per ricostruire un pensiero filosofico impegnato a trovare le tecniche conoscitive opportune per tentare di dare una spiegazione ordinata del Caos.
Ordinare il disordine, classificare distinguendo il pari dal dispari, misurare le cose, cercando di cogliere l’ordito geometrico che attraversa la realtà caotica del Cosmo.
Nel giro di pochi decenni, nel tentativo di incanalare il Caos in forme razionali rigide, il pensiero greco ci regala il Teeteto, il Parmenide e il Sofista, dialoghi dialettici di Platone, che anticipano la logica formale contenuta nei Topici, nei Secondi analitici e nei Primi analitici del filosofo per eccellenza, il grande Aristotele, che diventerà per l’intero millennio medioevale l’ipse dixit.
Ma il Caos c’è sempre, come ha detto Epicarmo. Le strutture semplici non riescono ad inquadrare il disordine, che puntualmente smentisce le regole certe del pensiero scientifico. L’ideale si intreccia col reale e tentano insieme di incanalare il Caos in una dialettica lineare e progressiva. Non c’è nulla di definitivo. La realtà diventa dato di fatto per poi trasformarsi in un flusso complesso non catturabile. Il caos smentisce ogni certezza e rimette in discussione anche le regole del giuoco della scienza.
Controllabilità intersoggettiva, falsificabilità empirica, variazioni paradigmatiche, epistemologie alla ricerca del fondamento assoluto.
Occorrono strutture complesse, bisogna combinare gli elementi, occorre trovare nuove dipendenze interne. Il Caos ha ancora la meglio, perché il Caos c’è sempre.
Un nuovo labirinto si spalanca e richiede nuove categorie interpretative. Il vecchio filo di Arianna non riesce ad imbrigliare il Caos ribelle, che si riaffaccia prepotente per generare nuove trasgressioni. Non regge più neanche la realtà. Il vuoto prende il suo posto. Non ci resta che ricominciare, perché, come ha detto Epicarmo, il Caos c’è sempre.

MANCA L’INFORMAZIONE. QUELLA SERIA………………..

di Vincenzo Andraous

E’ di questi giorni la polemica sulla pubblicazione di alcune intercettazioni telefoniche, e soprattutto su come è condotta la televisione di stato.
“Un oltraggio alla civiltà del diritto” è stato sentenziato, un’offesa alla dignità della persona coinvolta ingiustamente, è stato affermato.
Intercettazioni e contrattazioni si sommano volgarmente, diventano gossip, peggio, terreno di conquista politica.
Le vittime designate non risulteranno i protagonisti della vicenda, bensì i soliti cittadini dal silenzio imposto democraticamente.
Insomma che la fa da padrona è la scolara ripetente a nome ingiustizia, anche la carta stampata non si sottrae a questo andazzo, e senza andare a parare sui paragrafi irreggimentati dei giornali di partito, è sufficiente dare un’occhiata su qualche quotidiano nazionale.
La recita è talmente intenzionale e persistente da indurre a credere che sia l’utente a richiedere notizie disegnate su fiumi di sangue, sparate dagli effetti speciali, sempre chi legge a preferire l’immagine dell’orrore a discapito di una obiettività che risiede nella realtà vera delle cose.
Tutto ciò è quanto meno suggestivo.
Fare informazione non contempla la misura o la ricerca di una patologia da soddisfare, piuttosto sta nel raccontare i fatti, belli o brutti che siano, ma i fatti e solo quelli.
Per esempio, illustrare lo svolgimento di un convegno sull’importanza di offrire occasioni di lavoro ai detenuti, perché ciò da un lato elimina l’innalzamento della famigerata recidiva, dall’altro è fonte certa per il ripristino della legalità e della sicurezza, non è cosa di poco conto, soprattutto se lo si fa licenziando con fermezza i toni buonisti.
Ma scriverne e titolare l’articolo usando la pratica della mazza e del tridente sguainati, con spreco di neretto e cubitale sul nome di qualcuno che vi ha partecipato, insieme a molti altri, solo perché personaggio dal passato vergato a tragedia, di cui da trent’anni sta pagando le conseguenze, è una dinamica pennivendola, atta solo a incuriosire chi il giornale non lo legge.
Questo tipo di libera circolazione dell’informazione non mi pare l’ingrediente fondamentale per sostenere che siamo in democrazia, soprattutto non mi sembra intellettualmente onesto che, per fare risultare quel giornale visibile e interessante, debba esprimersi-sprecarsi in furbizie, piuttosto che spendersi con argomentazioni complete, sintetiche, ordinate.
Non è l’utente a richiedere al giornalista di stilare articoli o immagini scatenanti impulsi animali, credo invece sia l’esatto contrario, un certo professionismo giornalistico a creare e alimentare se stesso, attraverso la divulgazione del morboso, del male che banalmente affascina, senza rendere giustizia alla informazione, quella seria

mercoledì 26 dicembre 2007

Profilo d’Edoardo Galli: archeologo calabrese

di Carlo Andreoli


Una figura importante del panorama culturale del Tirreno Cosentino, ed in attesa ancora d’una meritoria riscoperta, mi pare sia quella d’Edoardo Galli.
Galli nacque, infatti, a Maierà nel 1880; e fu uno dei più valenti archeologi che, non solo la Calabria, ma l’Italia tutta del primo ‘900 abbia avuto.
Dopo la laurea in lettere all’Università di Roma, Galli nel 1907 assume già l’incarico di Segretario nel Museo Nazionale di Firenze; città dove rimane fino al ‘23. Del periodo fiorentino, tra i tanti contributi di ricerca ch’egli svolse, si segnala soprattutto una serie di scoperte e messe a punto del sito archeologico di Fiesole; di cui lasciò, non a caso, una pregiata guida degli scavi e del museo.
E proprio in grazia dei suoi meriti scientifici, nel ’23 gli viene conferita la libera docenza presso la Cattedra d’Archeologia dell’Università di Pisa.
Ma in tale anno, sopraggiunge pure un altro incarico importante per la sua carriera. Essendo stata istituita la Soprintendenza ai Monumenti della Calabria e della Lucania, egli ne diviene infatti il primo titolare: rimanendovi fino al ‘36.
Sono anni in cui Edoardo Galli getta le basi della ricerca archeologica in Calabria e Lucania: occupandosi, tra l’altro, delle Tavole Palatine di Metaponto, del restauro della Cattedrale di Tropea, del Duomo di Cosenza, del patrimonio d’arte del Santuario di Paola, delle chiese bizantine di Rossano. Fino a dare un impulso decisivo alla riscoperta dell’antica Sibari, di cui fu senz’altro l’artefice; e fornire un primo contributo critico alla ricerca di Laos: territorio che peraltro gli era noto fin dalla giovinezza.
Come Soprintendente ai Monumenti della Calabria, Galli ha pure il merito assoluto d’aver fondato e istituito nel 1932, su progetto di Marcello Piacentini, il Museo Nazionale di Reggio Calabria; dov’è oggi raccolto il più grande patrimonio archeologico della Magna Grecia.
Nel ’36 s’inizia, quindi, un’altre fase importante del suo lavoro d’archeologo: giacché infatti viene chiamato all’incarico di Soprintendente ai Monumenti delle Marche, dell’Umbria e dell’Abruzzo. Rimanendo, nella sede d’Ancona, fino al ‘47; dove ha modo di riordinare per intero il Museo Nazionale delle Marche.
Dal ’47 fino al ‘56, infine, anno della sua morte, vive a Roma: operando presso la Biblioteca dell’Istituto d’Archeologia e Storia dell’Arte; dove raccoglie materiale di prima mano per i suoi tanti saggi ed articoli scientifici.
Insomma, già dal breve profilo tracciato, s’evince d’aver di fronte una personalità di grande spessore; che ha segnato un’epoca intera di studi e tracciato sentieri su cui altri archeologi, come Enrico Paolo Arias, sono passati dopo di lui.
E d’una tale figura sarebbe forse opportuno tentare oggi un recupero; facendo un bilancio del suo lavoro scientifico e dei suoi tanti interessi che collimavano pure con la storia civile e la filologia; come mostra la famosa cronaca del Frugali della Cosenza del ‘600, ch’egli scoprì e diede alla stampe nel ’34. Così da definire, quindi, non solo l’immagine dell’archeologo; ma anche quella dell’uomo che sempre cerca qualcosa. E molto spesso la trova; illuminando il nostro passato, per farci luce nel presente.


Radio1One
(Venerdì 21 Dicembre 2007)

lunedì 17 dicembre 2007

Giovan Bernardo Azzolino a Cetraro e Scalea

di Carlo Andreoli


Si dice spesso che l’arte serve pure ad accomunare i popoli. E due belle cittadine del Tirreno Cosentino – Cetraro e Scalea – si trovano ad essere accomunate da un singolare legame d’arte che non esito a svelarvi.
Di fatto, hanno in comune l’autore di due pale d’altare; in due chiese molto note d’entrambe le città: la Chiesa dei Cappuccini di Cetraro e la Chiesa di S. Nicola di Scalea.
Dico subito che l’autore in questione si chiama Giovan Bernardo Azzolino.
Era un siciliano, trasferitosi a Napoli verso la fine del ‘500; e lì, nella capitale d’arte del meridione d’Italia, ebbe una fortunata carriera. Sicché lasciò molti lavori in grandi chiese di Napoli; ma tanti altri ne fece pure per le Province del Regno: la Puglia, la Basilicata e la Calabria per l’appunto. Faceva parte della schiera dei pittori tardo-manieristi, come si suole chiamarli: cioè di quelli che, indifferenti alla pittura nuova introdotta a Napoli da Caravaggio nel primo decennio del ‘600, rimasero fedeli ad un ideale d’arte classica, elegante nelle forme, devota e un poco statica nella posa delle figure.
A Cetraro, l’Azzolino ha lasciato uno splendido polittico; che vede, al centro, una Madonna degli Angeli, dipinta con colori d’impasto raffinato, ed ai lati una serie di Santi: fra cui spicca un Sebastiano dal bellissimo incarnato. Un’opera che risale forse al 1635, quando il Convento dei Cappuccini prese ad essere abitato dai frati.
A Scalea, si trova invece sull’altare maggiore della Chiesa di S. Nicola una tela della Madonna del Carmelo, eseguita intorno al 1615; che è adorata da un S. Nicola di Bari, che tiene per il ciuffo un popolaresco fanciullo coppiere, e da un S. Carlo Borromeo che indossa una vivace mozzetta rossa. Nel dipinto di Scalea, sono poi di singolare efficacia, i ritratti dei due Principi Spinelli, ripresi con gorgiera ed armatura, che mostrano la sicurezza del disegno e la sapienza del dettaglio di cui Azzolino era capace.
I lavori calabresi di questo Maestro del Manierismo Napoletano sono invero pochi: se ne conosce infatti un altro, a Taverna, ch’era tenuto in grande stima da Gregorio Preti, fratello del più famoso Mattia; e qualche altro, a Paola e Vibo Valentia, che gli viene dubbiosamente attribuito.
Motivo in più per esser fieri, quindi, d’avere dalle nostre parti due suoi lavori di certa attribuzione: in quanto la sua pittura, compunta e ricercata, è sempre più apprezzata dagli appassionati d’arte e dai collezionisti.
E se i lavori eseguiti dall’Azzolino nelle chiese di Napoli sono oggi piuttosto noti; la sua produzione calabrese attende ancora il dovuto riconoscimento.
E questa mi pare sia una ragione buona, come tante, per far conoscere sempre più ed apprezzare i nostri beni artistici ed i luoghi che hanno il pregio d’ospitarli.


Radio1One
(Venerdì 14 Dicembre 2007)

giovedì 13 dicembre 2007

Ciampa e L'imperatrice

di Tiziana Ruffo

Lunedì 10 dicembre alle ore 15,30, a Palazzo Vattimo si inaugura la mostra personale di Marcello Ciampa . Il tema è l’imperatrice, riferito in particolare alla donna al potere. La mostra rappresenta l’occasione per ripercorrere lunghi anni di ricerca di Marcello Ciampa all’interno di un progetto a lungo meditato, in un serrato colloquio con l’arte e la realtà locale, la storia di un territorio . Già artigiano del legno Ciampa valorizza la manualità colta che equipara alla creatività intellettuale ritenendo che siano due aspetti sinergici della creatività umana. L’itinerario porterà il visitatore a carpire il filo conduttore di un percorso, in cui emerge la complessità e la ricchezza culturale del pittore, il suo metodo progettuale, la costante riflessione sul linguaggio e sulla tecnica nella sua storicità. “La pittura come la scrittura- dichiara Ciampa- quello che si dipinge deve essere chiaro e non camuffato da astrattismi”. Un linguaggio graffiante, di denuncia e spesso provocatorio tra l’altro quello dell’artista. Un artista noto per il suo impegno sociale: negli anni 80 ha prodotto opere contro la mafia e ha dedicato alla memoria di Giovanni Losardo (militante comunista assassinato il 21 giugno 1980) la nota scultura “Il Cristo sofferente”. ( Gazzetta del Sud, 08.12.2007)

domenica 9 dicembre 2007

Paola: un esempio d'urbanistica barocca

di Carlo Andreoli

A partire da oggi, ogni venerdì, avremo modo di parlare delle risorse d’arte del Tirreno Cosentino, e di quanto è loro affine; offrendo una panoramica veloce ma esauriente della loro varietà.
Ma, anzitutto, bisogna chiedersi come sia possibile riconoscere al territorio costiero una sua singolarità che lo renda unico tra tanti.
Credo che il modo migliore per evidenziare la specificità del Tirreno Cosentino – rispetto ad altri comprensori – sia di far rilevare come all’interno di esso trovino luogo espressioni d’arte propria, che riassumono in maniera singolare la sua storia civile.
Se prendiamo, ad esempio, la città di Paola, troviamo, nel cuore del suo centro abitato, un episodio d’urbanistica barocca che mostra tratti d’assoluta originalità; non riscontrabili altrove.
Appena varcata la Porta di S. Francesco, si penetra, infatti, in una piazza – l’attuale Piazza del Popolo - che evoca, nella stessa dislocazione degli spazi, un ambiente tipicamente barocco.
Al centro, è una grande fontana in pietra; e, lungo i lati della piazza, sontuosi palazzi con balconi sorretti da mensole a volute e ringhiere in ferro battuto. Sopra un antico varco d’accesso alla città, s’ erge quindi la Torre dell’Orologio; che si continua nella mirabile facciata della Chiesa di Montevergine, ricca di bassorilievi figurati: opera dell’architetto Niccolò Ricciulli che, dell’arte calabrese del ‘700, fu rappresentante insigne.
Come accadeva nell’urbanistica barocca, che tendeva ad aprire nuovi spazi nell’intrico delle città medievali, la piazza si pone poi come elemento nodale d’altri punti focali dell’abitato.
Sicché da essa, si diparte il bel Corso Garibaldi; che i cronisti del ‘700 già notavano come strada animata, pavimentata da bei lastroni in pietra; e lungo la quale, per un certo tempo, si correva anche un palio cittadino.
Alla fine del Corso, troviamo quindi un altro complesso architettonico che segna, in maniera precipua, il fervore di vita che la società di Paola si trovava a vivere lungo il corso del ‘600-‘700.
Ed è il Collegio dei Padri Gesuiti che fu voluto per dare un nuovo impulso educativo alla città che in quegli anni vedeva maturare una crescita notevole del proprio stato sociale e culturale. Basti solo pensare a figure insigni ch’essa ha avuto come Giuseppe Maria Perrimezzi, esponente di spicco della Chiesa calabrese, ovvero a un musicista come Giuseppe Avossa che fu Maestro di Cappella prima a Pesaro e poi a Napoli. A fianco del Collegio dei Padri Gesuiti sorse poi, e la ritroviamo ancora oggi ben curata, la Chiesa del Rosario: che è uno dei pochi esempi d’architettura gesuitica in Calabria presso che conservata nelle sue forme originali. Dove si possono ammirare opere di particolare pregio: come il presbiterio, ricco di fregi dorati, lungo il quale corre una serie di medaglioni che ritrae esponenti dell’Ordine Gesuitico, ovvero uno splendido tondo della Madonna della Purità: opera del pittore fiammingo Dirck Hendricksz.
Insomma, visitando già questo breve tratto del centro storico di Paola, s’ha modo di cogliere non solo e non tanto singoli brani d’arte ma un intero assieme, dotato d’una propria coerenza stilistica. Impresa che peraltro fu voluta, nella sua concezione almeno, da Tommaso Francesco Spinelli, marchese di Fuscaldo e Signore di Paola.
Il quale ebbe l’animo di ridisegnare per intero una parte importante della Città di Paola; infondendole un aspetto caratteristico e unitario. E di cui noi, oggi, a patto che non siamo distratti d’altre cose, riusciamo ancora a cogliere l’essenza.
Rivendicando, come si diceva prima, un bell’esempio d’urbanistica barocca al Tirreno Cosentino.

Radio1One
(Venerdi 7 Dicembre 2007)

sabato 1 dicembre 2007

Evviva la libertà di stampa, ma...

di Luigi Panfili




Un grande problema ci si deve porre oggi in Italia: è un interrogativo cui è difficile rispondere, ma è un punto che è necessario trattare – ancor più alla luce degli eventi più recenti della cronaca politica – per far chiarezza su cosa si intenda per libertà di stampa e di cronaca.
La questione è semplice: la libertà di stampa è un diritto fondamentale illimitato oppure deve in taluni casi ritrarsi in favore di altri princìpi, anche questi fondamentali, che spesso nella pratica quotidiana vengono col primo a collidere? In sostanza, mi chiedo, si tratta di un diritto assoluto, sconfinato e per tanto definibile come un “superdiritto”, o – piuttosto – questo non deve essere rapportato, relazionato, raffrontato, relativizzato con altri basilari princìpi dell'Ordinamento repubblicano? A me interessa qui in particolare il rapporto tra il diritto alla cronaca e il processo penale.
Prendo subito posizione sul dilemma, e spiegherò quindi i motivi che fondano la mia scelta. Per me è necessario che alla libertà di stampa facciano da corollario almeno altri due princìpi. Il primo: la presunzione di innocenza; il secondo: la riservatezza di fatti che attengono alla sfera del personale e personalissimo. Ogni giorno vediamo quotidiani a tiratura nazionale e programmi televisivi che “sbattono” in prima pagina i contenuti di intercettazioni telefoniche riguardanti fatti privati; illustrano dinamiche interne ai Palazzi di Giustizia che di veritiero hanno spesso molto poco; ci informano su presunti litigi e divergenze di vedute tra pubblici ministeri; ci mostrano in prima serata esperti di ogni materia che dissertano su gli argomenti più gravi e seri con la stessa tensione morale con cui si svolge una una conversazione da thé.
Il più delle volte tutto si rivela una montatura (fatta di proposito per aumentare le vendite: è infatti sempre il profitto e l'interesse che muove il mondo giornalistico), altre volte è tutto vero, ma con ciò si violano palesemente i segreti istruttorii e d'ufficio (necessari alle indagini), nonché la privacy (diritto di prim'ordine che spetta all'imputato). In una parola, viene meno il sacrosanto diritto alla riservatezza. Ora è necessario fare una distinzione tra ciò che il diritto di cronaca è, e ciò che invece è nient'altro che una illecita, impropria e – a mio avviso – poco salutare intromissione in fatti altrui. Recentemente si è verificato il caso delle intercettazioni UNIPOL: documenti “segretati” che – offerti alla consultazione dei legali di parte – sono finiti (nonostante numerose cautele predisposte dal magistrato competente) pubblicati sui quotidiani del giorno dopo. Se si guarda al passato si scopre che questo malcostume non è di origine recente. Penso alla fuga di notizie dall'Ufficio Istruzione penale di Palermo che nel novembre 1985 a momenti non pregiudicava l'effettuazione della vasta operazione di polizia di poco antecedente l'inizio del “maxiprocesso”a Cosa Nostra. In una notte furono impiegate tutte le stampanti e le fotocopiatrici del Palazzo di Giustizia palermitano per preparare gli atti necessari all'arresto di oltre trecento persone e cercare così di anticipare la stampa, che – avendo ricevuto notizie riservate – sicuramente le avrebbe divulgate il giorno dopo, mettendo in allarme i destinatari dei provvedimenti.
Ora, dico io, questi esempi sono già un andare oltre i limiti della libertà di stampa e di cronaca. Non si deve consentire – infatti – ai giornalisti (o chi per loro) di pregiudicare i risultati di chi – svolgendo la propria professione al servizio dello Stato (magistrati), o nell'interesse dei singoli (avvocati) – abbia necessità di mantenere segreto il frutto del proprio lavoro. E' questo il caso specifico del processo penale italiano, nel quale si assiste ad un progressivo ed inesorabile venir meno delle più elementari garanzie democratiche. Oggi una persona che riceva un avviso di garanzia è già condannato dal “circo mediatico”; figuratevi poi se si riceva un ordine di custodia cautelare in carcere: apriti cielo, si è già pronti con la forca! “Se va in carcere, è certamente colpevole”, è il ragionamento di molti. La stampa, certa stampa, dimentica troppo spesso il principio fondamentale della presunzione d'innocenza, in favore delle maggiori vendite e profitti che una campagna mediatica senza esclusione di colpi e morbosamente attaccata alla foto rubata, all'intercettazione carpita, ad ogni modo colpevolista garantirà al quotidiano (o alla rete TV, è lo stesso).
Potrebbe essere in tal senso appropriato quanto meno ricordare al lettore la vicenda del “caso Tortora”, laddove si condannò il popolare conduttore televisivo prima ancora che in un'aula di tribunale, sulla stampa e in televisione: tutto si dimostrò sbagliato solo in seguito. Ma chi ripagherà mai Tortora del danno subito e della salute rovinata?
E allora, ritornando al discorso generale sulla libertà di stampa, mi viene da sorridere quando sento dire agli avvocati penalisti che oggi le comunicazioni dalla Procura ai propri clienti le si leggono prima sul quotidiano e solo in seguito le si ricevono notificate nel proprio studio sulla carta intestata dell'ufficio; mi chiedo dunque: ma è questa una cosa giusta? E' questo sistema normale in un paese democratico? La libertà di stampa e il diritto di cronaca sono importanti, fondamentali, sono il sale della democrazia. Ma si devono fermare dinanzi a due princìpi di ben più grande portata: la presunzione d'innocenza, tale per cui non si è colpevoli se non dopo un giusto processo regolato dalla legge che abbia accertato la responsabilità; e la riservatezza, che necessariamente deve coprire un certo tipo di atti o un certo lasso di tempo, per non pregiudicare i risultati del lavoro di tanti “operatori del diritto” penale. Difatti, a che cosa serve affermare con tanta altisonanza il diritto alla privacy, se poi – di fronte alla logica del profitto – si china il capo e non si esita a pubblicare notizie le quali – quando non false e tendenziose – giudicano un processo che non è quello giurisdizionale, previsto dalla Costituzione, ma è un vero e proprio processo mediatico? E' invece molto scorretto che certa stampa e certa televisione usi la libertà di stampa e il diritto di cronaca quale grimaldello per scardinare qualsiasi genere di critica, immediatamente bollata come anti-democratica e incostituzionale, e mascherare così i maggiori profitti e il più fiorente business che con quella dissennata campagna stampa o con quello sconsiderato servizio televisivo si vanno a conseguire, in barba alla presunzione di innocenza e al diritto alla privacy.
Pertanto evviva la libertà di stampa, purché questa sia sana e rispettosa, però. Non rispettosa di qualcuno, per carità; bensì rispettosa dei princìpi legali e prima ancora morali, che impediscono di trasformare in business mediatico le pene e le disgrazie patite da chi – colpevole o peggio ancora innocente – abbia a che fare con un procedimento penale. E' in ciò che consiste quel quid che differenzia un paese realmente democratico da una Repubblica delle Banane.