di Francesco Grosso
Non molto tempo fa, proprio su Controcorrente, mi sono occupato dell’assurda vicenda relativa a 27 migranti di nazionalità eritrea, abbandonati nel gran mare dell’indifferenza, lasciati tre giorni e due notti in compagnia dei tonni, in pieno Canale di Sicilia.
I 27 sventurati, superstiti di un precedente naufragio, si erano aggrappati alle gabbie per i tonni di un mercantile di passaggio, il «Budafel». Il capitano si era rifiutato di caricarli a bordo, perché non voleva compromettere il suo carico, e soprattutto perché non voleva noie di carattere legale con nessuna Capitaneria di porto. Non era affar mio, soccorrerli – ha ripetuto, sostanzialmente, ai giornalisti che nei giorni successivi alla vicenda (che per puro caso non si era conclusa con una ulteriore tragedia) lo hanno contattato. Le leggi internazionali, d’altronde, erano dalla sua parte: la qualifica di «clandestino» (che dà diritto al soccorso e all’assistenza) si acquisisce solo se si viene caricati a bordo, di una nave, non se si staziona nelle sue adiacenze. E poi, particolare non secondario, sbarcando i 27 naufraghi in un qualsiasi porto europeo, l’equipaggio correva il rischio di incorrere nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il confine fra «soccorritore lodevole» e «criminale favoreggiatore», per dirla tutta, è piuttosto labile e spesso lasciato alle interpretazioni dei singoli giudici. Una carenza legislativa foriera di fraintendimenti continui.
Commentando quanto avvenuto a poche miglia dalle coste della civile Europa, patria dei diritti umani e dell’Illuminismo, mi chiedevo quale tasso di cambio occorresse applicare ai 27 migranti rispetto ai tonni nelle gabbie; anzi mi chiedevo se non fosse più corretto considerare i 27 uomini, a tutti gli effetti, tonni. Per dare almeno un senso, un risvolto decoroso ad una vicenda tanto indecorosa, proponevo di utilizzare intelligentemente l’orrenda istantanea aerea che ritraeva gli uomini-tonno aggrappati alla loro disperazione di naufraghi. Proponevo, in sostanza, di eleggerla a immagine-simbolo della strage di uomini e sogni che quasi quotidianamente si consuma nel Mediterraneo – mare che per millenni ha unito opposte sponde, e che oggi pare divenuto un invalicabile muro, intollerante e crudele. Mi auguravo, infine, che il nome «Budafel» divenisse sinonimo di vergogna, solenne monumento all’egoismo e alla ferocia capitalistica dei nostri tempi. Auguravo a quel mercantile di continuare a vagare per il Mare di Mezzo come un abominio galleggiante, additato in tutti i porti come una specie di Nave dei Folli.
Tutto questo sostenevo e speravo, sbagliando. Sbagliavo perché il mio punto di vista era parziale, miope, non in sintonia coi tempi. Ero in errore, in grave errore, lo ammetto.
L’occasione per fare pubblica ammenda mi viene offerta dal caso, davvero esemplare, dei sette pescatori tunisini che attualmente scontano, nelle nostre carceri, la grave colpa di avere favorito l’immigrazione clandestina di 44 migranti di varie nazionalità (sudanese, etiope, eritrea).
Non avendo la possibilità di ascoltare dalla viva voce degli interessati (come è noto, in galera i contatti con l’esterno sono piuttosto difficili…) la loro versione dei fatti, possiamo provare a immaginare come siano andate le cose, lo scorso 8 agosto, nel Canale di Sicilia, in quel tratto di mare a 40 miglia da Lampedusa. Ispiriamoci a tante altre vicende analoghe, prendiamo in considerazione le testimonianze dei 44 naufraghi, pensiamo alle loro facce stravolte dal terrore e dagli stenti, teniamo sempre presente la sagoma sinistra del «Budafel», e poi abbandoniamoci alla fantasia.
Calda sera di agosto. Due pescherecci tunisini incrociano al limite delle acque territoriali italiane. A bordo, sette pescatori, lavoratori del mare. Lavoratori poveri del mare, gente semplice. Ad un certo punto il giovane del gruppo, che ha ottima vista, comincia a gridare:
– Guardate là, guardate là!
– Cosa c’è? Un altro banco di tonni?
– Macché tonni. Ci sono uomini, laggiù. Uomini in mare. Non sentite che gridano?
Sì, il Giovane ha ragione. Si sentono urla, si indovinano figure, là in fondo.
I due pescherecci fanno rotta verso l’insolito banco. A poco a poco cominciano a distinguersi i profili di una trentina di uomini, forse più, stipati su una carretta in via di ribaltamento. Ci sono anche delle donne. Arrivati a pochi metri dagli sventurati alla deriva, tutti e sette i pescatori hanno un sussulto. A bordo, in braccio ai genitori, ci sono pure due bambini piccoli.
– E adesso, che facciamo?
– Cosa possiamo fare, secondo voi? – dice il più vecchio del gruppo.
– Li carichiamo a bordo, no? Cos’altro possiamo fare? Li carichiamo e li sbarchiamo a Lampedusa, che è il porto più vicino.
– A Lampedusa? Sei matto? Vuoi finire nelle galere italiane?
– Non penserai mica di portarli con noi in Tunisia? Non vedi in che condizioni sono? Vuoi che quel bambino ti muoia a bordo?
– E il pesce? Come facciamo con il pesce che abbiamo pescato? In porto ci stanno già aspettando…
– Al diavolo il pesce! Questi sono uomini! – sentenzia il Vecchio, che sente su di sé una responsabilità particolare, adesso.
– È vero, sono uomini. E poi, non vedi? Sono neri, sono africani. Africani come noi.
– Questo non vuol dire nulla. Sono uomini, sono uomini e basta.
– Non possiamo lasciarli qui.
Già, non possiamo lasciarli qui. Sono uomini, questi 44 disperati che si sbracciano e ci chiedono aiuto nella grande sera mediterranea. Sono uomini, mica sono tonni. In breve, tutti i naufraghi vengono caricati a bordo delle due imbarcazioni, che iniziano a dirigersi verso Lampedusa.
Nel corso della traversata, il Vecchio guarda negli occhi i suoi compagni di lavoro. È fiero di loro, e sa che anche loro sono fieri di lui. Sa che più di uno sta pensando alle immutabili e non scritte leggi del mare, alle eterne leggi che regolano la convivenza umana. Sa bene di aver compiuto un gesto che non tutti compirebbero. Sono tempi crudeli, questi. Anche al loro porto sono arrivate notizie orribili, notizie che si stenta a credere vere: capitani che fanno finta di nulla, navi che tirano dritto, uomini e donne che annegano in mezzo all’indifferenza. Il Giovane, la faccia fiera di chi pensa di essere già un uomo, chiude gli occhi nella brezza serale, e pensa: «Ma come hanno fatto, quegli altri, se quelle storie sono vere, a non sentire le urla di persone come queste? Come hanno fatto ad allontanarsi, sapendo di stare condannando a morte degli innocenti? E il pianto dei bambini, non lo hanno sentito il pianto dei bambini?»
Le luci di Lampedusa si annunciano. Il Vecchio smette di parlare. Stava raccontando ai suoi compagni la storia di un uomo che per dieci anni ha vagato nel Mediterraneo, in cerca di approdo. E quanti naufragi, quanto dolore ha dovuto sopportare, lui. Anche un vecchio pescatore tunisino ha letto Omero, sì: chi ci autorizza a pensare il contrario?
Qui finisce l’idillio, signori. Finisce l’idillio e comincia la Legge. Cinque minuti dopo l’approdo, il Vecchio, il Giovane, i loro cinque compagni, sono stati arrestati con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Secondo le leggi italiane (e ovviamente anche secondo un giudice puntiglioso che le ha applicate come se lui non fosse altro che la semplice rotella di un ingranaggio immutabile) i sette pescatori sono equiparabili ai trafficanti di carne umana che sfruttano la disperazione dei migranti.
Non so né voglio sapere se l’espediente giuridico per chiarire questa vicenda esiste – non sono mai stato pratico di giudici e tribunali – e, magari per semplice negligenza, non sia stato applicato. Resta il fatto che i sette languono ancora in carcere, e ci resteranno almeno fino al 20 settembre, quando ad Agrigento si terrà una nuova udienza.
Il messaggio che una storia del genere consegna all’intera marineria del Mediterraneo è molto chiaro: Tirate dritto, sempre e comunque, naviganti. Uomini, donne, bambini, nelle carrette o già a bagnomaria… Qualsiasi scena si presenterà ai vostri occhi, tirate dritto, o incorrerete nel braccio fraudolento della Legge. Prendete esempio dal capitano del «Budafel», quello sì che ha saputo fare gli interessi suoi (e del suo armatore).
Tributato il giusto riconoscimento agli aguzzini del «Budafel», stabilito che il parametro di riferimento da utilizzare nel Canale di Sicilia è quello di Ponzio Pilato, resta da servire il benservito ai moralisti come me, ai sognatori come il Giovane e come il Vecchio. Ecco come hanno fatto tanti altri pescatori, Giovane: si sono fatti gli affari loro, perché sapevano che la salvezza di «quelli là» avrebbe comportato un mare di guai. E quanto a te, Vecchio: altro che ad Omero, alla propria pelle bisogna pensare! Alla tua età non l’hai ancora capito?
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