mercoledì 16 maggio 2007

L'amore al tempo dei lucchetti

Di Francesco Grosso

L’hanno chiamato «Family day», per aggiungere un tocco di internazionalità all’evento; ma un più prosaico e comprensibile «Giorno della Famiglia» sarebbe risultato assai più efficace, per consentire a chiunque di farsi un’idea. La manifestazione tenutasi a Roma sabato 12 maggio è stata in realtà italiana al 100%; genuinamente nostrana, orgogliosamente “nazional-popolare”, come si dice oggi. «La famiglia prima di tutto, la famiglia sopra tutto», recitava uno degli slogan più utilizzati, in questi giorni, dai sostenitori dell’iniziativa – anche uomini politici che alla famiglia devono tenere molto, se è vero che ognuno di loro ne ha avuto più di una, prima di scegliere quella giusta. La famiglia prima di tutto, certo: occorre conservarne l’unità e l’armonia, occorre proteggerla dalle influenze esterne; anche quando la famiglia è il luogo dei peggiori abusi sui suoi componenti più indifesi (bambini, anziani, donne, soprattutto: è tristemente noto che il 70% delle violenze sessuali sono consumate all’interno delle mura domestiche), anche quando la famiglia va in pezzi perché non regge più l’urto della modernità, anche quando agli inquilini del piano di sotto arriva l’eco di furibonde liti, o di vigliacchi atteggiamenti da società patriarcale: «Ma cosa vuoi fare, non vorrai mica sfasciare una famiglia?» Deve essere questo il motivo che spinge decine di medici, nei pronto soccorsi italiani, a non avvisare la forza pubblica né i servizi sociali, dopo avere medicato giovani donne che nel corpo portano i segni di certe strane cadute dalle scale. «Ma cosa vuoi fare, non vorrai mica sfasciare una famiglia?» Semplicemente, inconsapevolmente, quei medici annusano l’aria che tira; l’aria, per esempio, veicolata dall’Elettrodomestico – vero e proprio Grande Fratello, vera e definitiva arma di sterminio di massa dei cervelli – che sempre più spesso trasmette melense fiction intrise di familismo amorale e bigotto; fiction che invitano i genitori ad abbracciarsi, i figli ad obbedire senza discutere, i tinelli a rinserrarsi in una tranquilla, riposante, perpetua intimità familiare. Come se il mondo non fosse quel bailamme assordante che è, quell’indistinto brusio di voci, quel pullulare di volti che ci affiancano, ci rincorrono, ci affascinano, ci attraggono, ci respingono. L’amore, per sua stessa natura, è volubile, mutevole; varia col variare delle stagioni della vita, asseconda la luce del giorno; entra nelle vite e le brucia, rompe i muri e gli argini, frange le onde della ragione. Il registro dell’amore è insomma un registro polifonico, stonato, fracassone… E qualcuno vorrebbe farci credere, adesso, dopo tante lotte e tante conquiste sociali costate sangue e sofferenze a tanti che ci hanno preceduto, che l’amore non sia altro che quella musichetta monocorde, quel ticchettare monotono di lancette, quel semolino insignificante così mirabilmente eternato da Luciano Bianciardi in «La solita zuppa». A pensarci bene, è un segnale assai preoccupante che, inseguendo un fenomeno editorial-cinematografico costruito a tavolino da occhiuti sceneggiatori, torme di adolescenti abbiano preso l’abitudine di giurarsi amore eterno attaccando pesanti lucchetti ai lampioni di varie città italiane. E sarà sempre più difficile, per quegli adolescenti, capire che attaccando lucchetti stanno preparandosi a vivere ancora più incatenati di quanto non stiano vivendo i loro genitori. Particolarmente assurdo, poi, che in questi giorni la Famiglia sia stata usata come supremo baluardo contro quella proposta di legge – assai timida, in verità, nella sostanza – che mira ad estendere alcuni diritti basilari alle cosiddette coppie di fatto. Il diritto di assistere, nel letto da cui partirà per l’ultimo viaggio, la persona che si è amata per tutta la vita, il diritto di continuare ad abitare nella casa in cui si è abitato insieme per anni, il diritto di condividere ufficialmente quei beni che di fatto si condividono da sempre… Sarebbero queste, le minacce per la famiglia, per la sacra, monolitica, intoccabile famiglia italiana? Davvero l’estensione di certi diritti a tutti può nuocere a chi di quei diritti godeva in precedenza? La coppie di fatto, per chi non lo sapesse o non volesse saperlo, sono ormai parte integrante della vita quotidiana. È sufficiente guardarsi intorno, compiere una rudimentale indagine nel proprio condominio, o nel proprio quartiere. Di cosa, dunque, stiamo parlando? Del diritto di camminare insieme ad una persona anche se non si vuole, o non si può, affrontare alcun passo ufficiale? Del diritto di amarla, di sostenerla, di provare per lei – o per lui – tenerezza o pietà? E proprio la pietà, dovrebbe essere la stella polare di chi fa del Vangelo la propria bandiera. La pietà per tutti, anche per chi, secondo il mio personalissimo canone, sbaglia: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Neppure io ti condanno…» Ma forse, con l’ennesima dimostrazione della frattura che c’è nel corpo sociale italiano, andata in scena nella piazza, abbiamo avuto conferma che stiamo assistendo ad un vistoso scollamento della Chiesa, non solo dalle contingenze della quotidianità, ma dai suoi stessi insegnamenti. «Guai a voi…», come diceva il Maestro, si può dire solo se si ha la coscienza pulita. La figura di Gesù, così come ce la raccontano con efficacissima semplicità i Vangeli, si erge come estremo baluardo contro l’intolleranza e l’ottusità delle gerarchie religiose a lui contemporanee. Splendide, anche per chi non crede, appaiono la sua coerenza, la sua tenerissima compassione verso tutti, la sua capacità di indagare i mille angoli della vita. Piace immaginare il Maestro incuriosito dalle cose del mondo, attento ai bisogni veri della gente, divertito dall’allegro trambusto dei villaggi che attraversava. Splendido, e divinamente umano, appare il Gesù dubbioso e pensoso del Getsemani; i tratti coi quali l’evangelista Luca ci dipinge il Maestro in preda allo sconforto sono di una plasticità giottesca. Il Maestro ha vissuto i dubbi sulla sua pelle; quelli che oggi pretendono di parlare a nome suo, invece… «Io sono la via, la verità e la vita», diceva; ed ecco il punto. Prima di pretendere di essere la Verità, di farsi Verità assoluta, il Figlio diceva «la Via», diceva cioè una cosa semplice: prima di giungere bisogna camminare, al Padre si arriva attraverso una strada. E sulla strada, si sa, si fanno tanti incontri, le carovane si mischiano, le idee si intrecciano, le lingue si fondono, i pareri si conciliano, le abitudini si compenetrano. Poi, ma solo poi, c’è la Verità; alla Verità si perviene dopo un lungo cammino. E comunque, subito dopo Via e Verità c’è la Vita: è con la Vita e le sue mille sfumature che gli uomini e le donne devono fare i conti. Rimanendo chiusi nei Palazzi, invece, non si incontra nessuno, o meglio, si finisce per incontrare soltanto se stessi e le proprie sicurezze; nel chiuso delle Stanze, invece di apprendere l’arte dell’ascolto, si finisce per affinare solo l’arma del parlare sentenzioso e ampolloso. La comunicazione diventa a senso unico, la Parola finisce per verticalizzarsi, e dunque non si può che finire per esprimere sentenze fine a se stesse, sentenze che sanno, appunto, di chiuso e di vecchio. Davvero arrogante e ingiustificata, allora, appare la pretesa delle Gerarchie di sapere «intercettare il comune sentire.» Rinchiudendosi nelle proprie certezze non si intercetta proprio nulla, anzi: ci si preclude la possibilità di poter scorgere Cristo nella quotidianità, e quindi in ogni essere umano, buono o cattivo o sposato o convivente o eterosessuale o omosessuale che sia. Permettetemi di concludere con incoerenza: dopo aver fatto l’elogio dell’incertezza, esprimo anch’io una certezza assoluta. In piazza, sabato 12 maggio, la guest star della manifestazione, l’ospite d’onore in nome del quale si sono scomodati a migliaia, non c’era. Non c’era perché non poteva esserci: il Gesù dei Vangeli era un tollerante, uno votato all’inclusione di tutti, non all’esclusione di qualcuno; uno davvero privo di pregiudizi, aperto al nuovo ed anzi acceso nemico del vecchiume della tradizione. Gesù era uno che andava a cena con peccatori, prostitute, proprietari terrieri, contadini, pescatori, semplici disgraziati; uno che alle fontane si fermava a parlare con le donne, che si esprimeva con parole chiare e comprensibili a tutti. Un cittadino del mondo, si potrebbe dire. E dunque, era ampiamente prevedibile una piazza gremita di difensori della fede; prevedibili le parole di qualche mamma, con bebè al seguito, che agitava lo spauracchio degli omosessuali sposati, prevedibili le frasi fatte sui bei tempi andati, sulla sana ipocrisia di una volta, prevedibili i vessilli di Cristo innalzati come invincibile baluardo contro l’immoralità. Tutto prevedibile, tutto calcolato; ma il manifestante tanto invocato, tranquilli, non c’era: che Gesù potesse scendere in piazza per accanirsi contro i diritti di qualcuno no, davvero, non era neppure lontanamente immaginabile. Vedendo le folle Gesù si sarebbe ritirato sulla Montagna. A meditare.

Nessun commento: