di Carlo Andreoli
Noi, forse, non ce ne accorgiamo; ma l’esistenza di tutti noi è conformata, in diversa gradazione, sulle modalità dell’essere o dell’avere. Il brillante paradigma fu spiegato, in maniera mirabile e accurata, da Erich Fromm in un suo famoso saggio. Ma lo stesso Fromm riconobbe che tale scelta del comportamento umano, che si riflette poi sul nostro intero sistema di vita, era stata già notata dai maestri del pensiero dell’antichità. Per trovarne quindi il seguito in pensatori diversi; che andavano dai mistici cristiani, come Maestro Eckhart, fino ai razionalisti e a Marx; il quale concludeva che “meno si è, meno si esprime la propria vita; più si ha e più è alienata la propria vita”.Ma com’è possibile spiegare brevemente un dilemma tanto arduo quanto ostico a vedersi ai nostri occhi; abbacinati come sono dai riflessi abbaglianti e lusinghevoli che il corso degli eventi ci propone, sotto forma spesso di progresso umano? Come sempre, le questioni sono grandi se grande è pure la confusione d’animo di chi intende indagarle; giacché la pura ingenuità d’un bambino riuscirebbe già da sola a percepirne l’elementare essenza.Diciamo, allora, che l’uomo - a seconda del proprio istinto, della propria sensibilità, della propria cultura e delle sollecitazioni sociali che riceve – tende a sostituire inesorabilmente tutte le qualità del proprio essere, che ritiene manchevoli o comunque inadeguate per raggiungere da sole un risultato di vita, con dei beni materiali. Che, essendo la manifestazione concreta d’un avere, gli danno la percezione di valere più o meno qualcosa, a secondo del loro numero e della loro pretesa qualità. Fino a giungere all’illusione che l’esito finale di questa acquisizione – il suo tenore di vita, il suo rango sociale, la sua stessa ambizione – sia l’autentica espressione della sua personalità: il frutto, insomma, d’una vita spesa bene; come spesso si sente dire, proferendo quasi una bestemmia.E’ come se la finitezza presunta del proprio essere, e della propria personalità, trovasse una ricompensa adeguata nella congerie di beni e di traguardi sociali che ci s’affanna a rincorrere: supposti, invece, come segno certo del proprio merito e premio della benefica ambizione personale.Schopenhauer avrebbe detto in proposito, con una punta di malcelato orgoglio, che chi non ha una personalità da esibire, mostra allora il suo reddito ed il suo vano tenore di vita. Ma la scelta tra essere ed avere si lascia dietro una serie di relitti; che non sono soltanto gli affetti più sinceri e i buoni sentimenti; quanto l’essenza stessa della vita umana ed il valore che ad essa ci si propone d’assegnare. Si prefigura allora una vera e propria ideologia dell’avere che, sotto le false spoglie spesso del lavoro umano e dei suoi successi, sacrifica inesorabilmente le esigenze elementari della personalità. Fino a pervenire, come notava appunto Marx, ad una vera propria alienazione: in cui sono i beni materiali e la sete di successo a possedere l’uomo e decidere le sorti ed il percorso della sua vita intera.Fromm concludeva il proprio saggio preconizzando la formazione d’un “uomo nuovo”; in cui fosse divenuta prevalente “la fiducia fondata sulla fede in ciò che si è; anziché sul proprio desiderio di avere, di possedere, di controllare il mondo, divenendo così schiavo dei propri possessi”.Ma si rendeva pure conto che solo pochi avrebbero potuto attingere un simile obiettivo; perché la tensione incalzante dell’ambizione dell’umana “non è che un’altra forma di bramosia, un’altra versione dell’avere”. Una meta ardua, quindi, da raggiungere? Intanto, averne cognizione serve già da solo a mitigarne gli eccessi; ed evitare che la foga d’avere e di raggiungere mirabili obiettivi non ci faccia calpestare la dignità nostra e di chi ci vive a fianco. Meglio ancora sarebbe se si capisse, come diceva Lao-Tse, che la vera via del fare è quella in salita ma sicura dell’essere e non quella piana ma pericolosa dell’avere
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