di Carlo Andreoli
Lo studio delle tradizioni popolari risale pressappoco alla seconda metà dell’800. Ed in Calabria esso ha avuto un padre nobile in Giovanni De Giacomo che ne è stato un precursore convinto e appassionato.
Nato a Cetraro, nel 1867, egli si diede una vasta formazione classica che gli servì da tramite per i suoi interessi di ricerca; avvertendo come in Italia ed Europa si stesse profilando ormai l’origine d’una nuova scienza che faceva del folklore il suo campo d’indagine. E, pur vivendo in provincia, riuscì a stabilire una serie di contatti con figure eminenti della nuova disciplina che segnarano la sorte del suo futuro di studioso. Sicché conobbe e fu amico del Padula e del Julia, come pure prese parte agli studi, in Sicilia, del Pitrè. E su consiglio di Graziadio Ascoli, che compilava allora un poderoso “archivio glottologico”, e dell’illustre prof. Hugo Schugardt, dell’Università di Graz, si diede tutto allo studio del folklore e dell’etnografia calabrese.
Dopo un saggio su “La Calabria e l’orco”, apparso nel 1894, iniziò una fruttuosa collaborazione con la rivista “La Calabria”, diretta a Vibo Valentia da Luigi Bruzzano. Pubblicandovi articoli succosi sugli “Usi e costumi dei villani di Cetraro”, saggi di medicina popolare e raccolte di motti e di sentenze varie che ancora oggi conservano un autentico valore di recupero della civiltà locale. Crebbe in notorietà ed il suo lavoro di ricercatore gli valse molte lodi ed incoraggiamenti. Ruggero Bonghi si occupò di lui, nel periodico la “Cultura”, ed il De Gubernatis lo volle a collaboratore della “Rivista di letteratura popolare”; mentre alcuni suoi lavori letterari comparvero sui fogli Avanguardia, Fanfulla e La Cronaca di Calabria. Tutto questo vasto patrimonio di notizie e conoscenze lo riversò quindi nel suo libro “Il Popolo di Calabria”, edito in due volumi nel 1896-99. Un compendio d’usi e tradizioni, dove pure confluirono recuperi importanti; come certi resti del teatro popolare calabrese risalenti alla farsa del ‘600. Ma uno dei suoi lavori singolari, uscito postumo con una prefazione di Raffaele Sirri, fu “La farchinoria”; che raccolse riti e consuetudini dell’eros in Calabria: frutto d’una raccolta personale di notizie che fu un tratto tipico e moderno della sua veste di ricercatore. Per molto tempo della sua vita insegnò: a Cetraro, Belvedere, Paola e Rossano; come pure, brevemente, al Liceo Telesio di Cosenza dov’ebbe modo di conoscere il Misasi e Domenico Milelli. E la sua predilezione per gli studi lo portò pure lontano; come quando nel 1910, per incarico di Lamberto Loria, compose il padiglione calabrese del Museo nazionale d’etnografia, conservato tuttora in Valle Giulia di Roma. Ammalatosi piuttosto gravemente, nel 1917 si ritirò nella sua casa, al Borgo di Cetraro, dove continuò a scrivere e studiare; confortato dall’affetto d’amici come lo scrittore Antonino Anile o l’antropologo Raffaele Corso che sempre si dichiarò suo allievo affezionato. Finché, un anno prima di morire, diede alla luce, nel 1928, il suo ultimo lavoro: “Athena Calabra”. Una silloge di scritti che voleva rivendicare alla Calabria un suo atavico splendore; dove la storia regredisce ad epos ed il tratto fiero della gente di Calabria diventa, esso stesso, motivo formatore della storia. Ad alcuni parve, allora, quest’impresa un esercizio di retorica, che contraddiceva lo stato miserevole in cui si dibatteva la Calabria. Ma, come ebbe a dire una volta il De Giacomo, “la miseria, prima che nelle nostre tasche, è nella nostra testa”. E forse il vecchio professore di Cetraro non aveva torto.
Radio1One
(Venerdì 16 Maggio 2008)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
2 commenti:
we ankio sn nato a cetraro
è una vergogna, che il comene non ricordi una persona così importante.
filippo m.
Posta un commento