giovedì 26 luglio 2007

QUANDO IL CAPORALATO È DI STATO

di Francesco Grosso

Immaginate di partecipare ad un gioco, magari di quelli – non particolarmente intelligenti, in verità – che si fanno in questo periodo sotto l’ombrellone. Il gioco consiste nell’individuare il tipo di reato che uno dei giocatori sta descrivendo.
Primo caso: un tizio intraprende un’attività commerciale, apre un negozio, e ad un certo punto gli si presentano davanti due loschi individui, che gli dicono più o meno: «Hai bisogno della nostra protezione. Sì, insomma, qualche ragazzaccio con il passamontagna, qualche ladruncolo che di notte si aggira per la città, potrebbe entrare nel tuo negozio, e danneggiare gli scaffali, rubare la merce, o addirittura bruciare tutto! Ma non c’è problema: per ovviare a questo è sufficiente pagare, mensilmente, la Protezione che noi ti offriamo. Una piccola somma e passa la paura. Senza questo esborso, non potresti lavorare.»
A questo punto uno dei giocatori interrompe e urla: «Ma sì, questa è una tangente, un’estorsione, insomma: questo è racket!» Benissimo, risposta esatta. Andiamo avanti.
Secondo caso: un tizio acquista un computer, si allaccia alla Rete, e questa volta senza neppure bisogno della visita di un paio di loschi individui, si accorge subito che manca qualcosa. I racconti di tanti suoi amici che un computer ce l’hanno già gli fanno sentire, più o meno, queste parole: «Hai bisogno della nostra protezione. Sì, insomma, qualche ragazzaccio con la bandana, qualche adolescente giapponese che a casa non ha nulla da fare, potrebbe entrare nel tuo pc attraverso un virus, e danneggiare file, carpire dati importanti, o addirittura distruggere tutto! Ma non c’è problema: per ovviare a questo è sufficiente acquistare, annualmente, la Protezione che noi ti offriamo. Una piccola somma e passa la paura. Senza questo esborso, non potresti lavorare.»
A questo punto gli altri giocatori iniziano a guardarsi in faccia smarriti. C’è una lunga pausa, e poi il più coraggioso di essi afferma, questa volta a bassa voce: «Ma sì, questa è una tangente, un’estorsione, insomma: questo potrebbe essere racket…» Potrebbe essere o è? «Mah, diciamo che non c’è molta differenza, fra i due scenari…» Risposta sbagliata, sbagliatissima. La differenza c’è, ed è enorme. Quanto descritto prima è una cosa bruttissima e censurabile, oltre che assolutamente illegale, perpetrata da un’associazione a delinquere. Quanto descritto adesso, invece, si chiama Protezione Antivirus, è una cosa buona e giusta, un servizio offerto da una multinazionale seria, ed è perfettamente legale.
È legale perché il Sistema ha deciso che è legale.
In un articolo breve come questo non è possibile scomodare Foucault o Benjamin per tentare l’impresa di spiegare perché l’ordinamento giuridico, i Poteri Costituiti attualmente egemoni nel mondo, considerino legali, ad esempio, le guerre preventive, lo sfruttamento del neo-colonialismo travestito da globalizzazione, il furto delle risorse idriche mondiali – a vantaggio dei colossi della bottiglia –, o quello delle risorse minerarie e forestali; sono legali, nel mondo, pure i tassi da usura che applicano le banche, o quelle allegre transazioni bancarie che hanno per oggetto armi leggere e pesanti; è legale anche l’istigazione a delinquere perpetrata dalle case automobilistiche, cioè la fabbricazione di autovetture in grado di raggiungere velocità degne di arresto immediato a qualsiasi latitudine.
Ci si deve solo accontentare, in questa sede, di ricordare che in fatto di legalità e illegalità non esistono criteri assoluti e universalmente accettati. Ogni società si è sempre data le sue regole, e le regole sono sempre state scritte a vantaggio di quella che, con linguaggio moderno, possiamo indicare con il termine di «classe dirigente.»
Perché un così lungo e sconclusionato discorso preliminare? È presto detto.
Rituffiamoci di nuovo nel gioco. Terzo caso: una persona bisognosa è disposta a mettersi, come si dice, “sotto padrone”, in un’assolata giornata di luglio, in una campagna pugliese. La raccolta dei pomodori è già iniziata, il “padrone” ha bisogno di braccia, e accetta l’offerta del disperato. La paga consiste in qualche euro giornaliero; il lavoro è massacrante, pericoloso per la salute e privo di tutela sindacale. Non è neppure lavoro, insomma: il termine che lo qualifica è «caporalato», neologismo che cela una realtà criminale della quale in Italia, purtroppo, si parla sempre poco.
Quarto caso: una detenuta statunitense ha bisogno di denaro per assicurarsi qualche giorno di sopravvivenza dopo la sua uscita dal carcere, visto che è in scadenza di pena, ed è dunque disposta a mettersi “sotto padrone”. Il padrone (in questo caso alcune grandi aziende agricole del Colorado) ha bisogno di braccia per la raccolta di meloni, cavoli, zucchine, peperoncini… La manodopera scarseggia perché le nuove leggi anti-immigrazione dello Stato hanno impresso una pesante stretta agli arrivi di clandestini dal vicino Messico. Il padrone, dunque, si accorda con l’amministrazione penitenziaria del Colorado, e l’offerta della disperata (delle disperate…) viene accettata. La paga: al netto di trattenute varie (non manca la simpaticissima voce: «Conto rimborso danni» alle vittime delle loro malefatte…) le detenute percepiscono 80 centesimi di dollaro al giorno. No, non è un errore di battitura, avete letto bene: 80 centesimi al giorno, 10 centesimi all’ora; perfino il più farabutto dei caporali nostrani si vergognerebbe di destinare così poco, ad un suo schiavo. Ma un conto è lo sfruttamento di un farabutto senza scrupoli, e un altro è lo sfruttamento, pianificato e sistematico, di Stato. Nelle ore centrali della giornata, a luglio, la temperatura media della zona teatro del simpatico esperimento è di 42 gradi. Il lavoro è dunque massacrante, pericoloso per la salute e praticamente privo di tutela sindacale.
Ovviamente tutto questo non si può definire caporalato, non è moralmente ripugnante, e per porvi fine non è possibile avvisare la polizia (c’è gia, tra l’altro). Tutto questo non si chiama caporalato: si chiama «reinserimento sociale di individui pericolosi». Sembra uno scherzo, un esempio provocatorio, ma non lo è affatto. Tutto è tremendamente vero, sotto gli occhi di chiunque volesse sincerarsene. L’incredibile storia che arriva da Pueblo, Colorado, Stati Uniti, sembra in realtà provenire dal XVIII secolo, o giù di lì. C’è qualcosa di sinistramente esotico, nelle foto che ritraggono quelle giovani donne in maglietta gialla, curve nei campi, sorvegliate a vista da secondine a braccia conserte; immagini che sanno di dannati alla catena, di commercio di schiavi, di colonia penale nella Guyana francese, o di fazende brasiliane che nel nostro immaginario abbiamo giustamente eletto come luoghi di orrore e di inciviltà contemporanea.
Con impareggiabile volgarità, la portavoce dell’amministrazione carceraria del Colorado, Katherine Sanguinetti, si è sentita in dovere di affermare che le detenute prescelte «sono felici di lavorare nei campi, di stare al sole, di imparare un mestiere», come se farsi sfruttare per 10 centesimi di dollaro all’ora possa essere un qualcosa di realmente assimilabile alla categoria «lavoro». Non soddisfatta, l’encomiabile portavoce ha aggiunto, con mancanza di tatto e di sensibilità femminile davvero sconcertanti, un personalissimo tocco di colore: cioè che in fondo qualche sana giornata di fatica «può essere anche l’occasione per perdere qualche chilo.»
Che queste espressioni siano razziste e classiste – e non semplicemente imbecilli – è testimoniato da un elemento, persino scontato, a questo punto: la quasi totalità delle detenute impiegate in questi giorni nei campi (detenute, si badi bene, che non si sono macchiate di sangue, ma autrici di borseggi, piccoli furti e cose del genere, ritenute dunque degne di accedere ai lavori-premio) è costituita da sbandate, poveracce, immigrate, clandestine messicane per lo più – così il vergognoso cerchio può davvero chiudersi: il testimone del lavoro da schiavi nei campi, da quelle parti, è passato dal messicano-clandestino al messicano-galeotto.
La Nazione-faro dell’occidente, l’autoproclamata «più grande democrazia del mondo», permette che all’interno di un suo Stato venga perpetrato, legalmente e sotto gli occhi di tutti, un simile scempio dei diritti umani. La Nazione tanto vogliosa di esportare la democrazia nel mondo, paladina della stabilità e della Libertà Duratura, gareggia in ferocia e in squallore con gli aguzzini e i caporali di provincia – tra l’altro, ammantando il tutto di un nauseabondo alone moralistico.
A questo punto, potrebbe aprirsi un lungo discorso sulle contraddizioni insopportabili che convivono all’interno del Sogno Americano. Ma sarebbe superfluo, forse: certi episodi, certe notizie «marginali» (che mai e poi mai meriterebbero titoloni sui giornali) posseggono una forza intrinseca che lascia intendere le cose – a coloro i quali desiderano intenderle – in un modo che più chiaro non potrebbe risultare.

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