lunedì 9 luglio 2007

Il trasformismo nei Viceré di De Roberto
di Margherita Ganeri

I. I Viceré è un romanzo di denuncia politica: attraverso la storia della nobile famiglia Uzeda di Catania, discendente immaginaria degli antichi viceré di Sicilia, l'autore racconta in chiave molto critica il processo di unificazione nazionale in Sicilia, tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta dell’Ottocento. Il tema del fallimento del Risorgimento viene letto come premessa dell’avvento del trasformismo, la politica ufficialmente inaugurata nel 1882 da Agostino Depretis, dopo l’accordo con Marco Minghetti, ma di fatto operante già nel decennio 1876-1887. La pratica del trasformismo si attenuò sotto il decisionista Francesco Crispi, ma si concluse ufficialmente solo nel maggio 1892, con l’avvento di Giovanni Giolitti. Di fatto, però, anche nei governi di Crispi e di Giolitti, che esercitavano il potere grazie all’appoggio di un ceto politico corrotto, la mentalità trasformistica non scomparve. Per questa ragione, tutta la fase italiana post-risorgimentale, nel periodo tra l’82 e la prima guerra mondiale, è spesso genericamente definita del trasformismo. Il termine allude perciò non solo all’annullamento della dialettica fra maggioranza e opposizione, per effetto della fusione dei partiti tradizionali (destra e sinistra liberali) in un unico raggruppamento centrista, ma anche agli aspetti patologici di un sistema estensivamente clientelare. Il trasformismo è quindi un atteggiamento politico opportunistico e incoerente, che spinge a cambiare partito per puro interesse personale, e implica una visione immobilistica della politica, dato che le scelte di schieramento non modificano la sostanza dei poteri.
Del fenomeno, nei Viceré, viene data una rappresentazione molto incisiva. Di fronte ai moti risorgimentali e all’erosione del prestigio e del potere nobiliare, la famiglia Uzeda riesce ad adattarsi al nuovo corso storico: prima Gaspare duca d’Oragua, poi il principe Consalvo di Francalanza vengono eletti al parlamento (il primo al piemontese, il secondo al romano, dove ottiene presto anche la carica di ministro). I Viceré si chiude con l’elezione del 1882 (anno in cui inizia il trasformismo storico). L’incompiuto Imperio, che conclude la trilogia Uzeda, è un romanzo parlamentare, che racconta la stagione del trasformismo. La denuncia che troviamo nei Viceré è fondata sui documenti storici e sull’ancoraggio ai fatti, anche se alla realtà documentaria si contrappone una scrittura ironica e pungente, che mette in ridicolo e sbeffeggia i potenti e le loro strategie di potere, a cominciare, ovviamente, dal linguaggio politico. Il tono grottesco smorza ogni possibile effetto lirico o melodrammatico: il registro dominante è al contrario sarcastico, tra livore e amarezza disillusa.

II. In una prospettiva politicamente impegnata, De Roberto dipinge le classi egemoni e il ceto intellettuale siciliano di fine secolo come artefici di un degrado morale e umano senza speranza. Proprio perché la denuncia ha come bersaglio il generale svuotamento dei valori politici operato da un intero ceto dirigente, composto di nobili e di borghesi, disposti a cambiar bandiera e partito, la prospettiva di De Roberto non è conservatrice e aristocratica. Pur appartenendo alla nobiltà siciliana decaduta (da parte di madre), il nostro autore era un liberale di mentalità borghese; un intellettuale inizialmente romantico, che nell’età del trasformismo comprende il fallimento e perciò il carattere troppo idealistico dei valori risorgimentali. La sua delusione intellettuale lo spinge a un bisogno rabbioso (fino alla vera e propria cattiveria) di criticare le classi dominanti, soprattutto l’aristocrazia. Se nei Viceré i nobili restano al potere, la borghesia emergente è presentata come un ceto ingenuo perché incapace di opporsi alla nobiltà. Un intellettuale borghese come Benedetto Giulente, che riesce a sposare la più giovane figlia della casata Uzeda, Lucrezia, è colto e romantico, ingenuamente idealista, e proprio per questo si vede scalzato, alla fine, da Consalvo, nelle proprie aspirazioni di carriera politica. Capirà solo dopo la propria sconfitta personale che le sue idee di progresso erano romanticamente ingenue. E nelle sue parole, come per esempio nella seguente citazione, sentiamo la stessa rabbia dello “sconfitto” De Roberto: «Avevano promesso il regno della giustizia e della moralità; e le parzialità, le birbonate, le ladrerie continuavano come prima: i potenti e i prepotenti d'un tempo erano tuttavia al loro posto! Chi batteva la solfa, sotto l'antico governo? Gli Uzeda, i ricchi e i nobili loro pari, con tutte le relative clientele: quelli stessi che la battevano adesso! » (Benedetto Giulente, nei Viceré). Si sentono qui l’amarezza, la delusione, la sfiducia che attraversano l’intero romanzo, per effetto del punto di vista critico e impegnato di De Roberto, che però non parla mai in prima persona.

III. I Viceré è affollato da un ampio numero di personaggi, di cui molti sono storici: vediamo in scena, seppure sullo sfondo, Garibaldi, Bixio, Menotti. Naturalmente i più importanti sono i numerosi membri della famiglia Uzeda. Questi sono in costante conflitto tra loro per le ragioni più svariate, sono prepotenti che non conoscono vie di mezzo, sono inetti o megalomani dominati dalla volontà di potenza. Sono tutti pazzi, come dice spesso la voce anonima della folla, hanno tic e manie ossessive e al tempo stesso sono molto testardi e volubili, dato che cambiano radicalmente idea in modo imprevedibile. Ma, soprattutto, gli Uzeda sono cinici ed egoisti, non hanno valori e sono mossi sempre e solo dal proprio personale tornaconto. Per effetto della sete di potere, nessuno si salva, nessuno è sano, nessun personaggio è positivo. L’anziana Teresa che muore all’inizio del romanzo è una madre snaturata, che gode dell’esercizio di un’autorità perversa, perseguitando ingiustamente quasi tutti i propri figli (ne costringe due al convento, al primogenito impedisce il matrimonio d’amore e lo spodesta di metà del patrimonio, a Chiara impone di sposare il marchese Federico di Villardita, a Lucrezia di restare zitella, e tratta Ferdinando da Babbeo). L’unica eccezione riguarda il bellissimo Raimondo, amato invece in modo quasi incestuoso. In De Roberto troviamo spesso esempi di madri sadiche, persecutrici e autoritarie, oppure madri deboli e vittime. La maternità è sempre il rapporto in cui si concentra il maggior tasso di sadomasochismo, forse per riflesso di quello morboso che lo scrittore ebbe con la propria madre, amata e odiata in modo patologico fino alla fine della propria vita. I figli di Teresa sono tutti personaggi in qualche modo caratteriali, pieni di nevrosi: il principe Giacomo è avaro, opportunista, terrorizzato dai contagi e dagli iettatori, Chiara e Lucrezia sono volubili verso i propri mariti, il contino Raimondo è un dongiovanni viziato e anaffettivo. Ma nevrotici, in effetti, sono un po’ tutti i personaggi del romanzo: per esempio lo è la prima moglie di Giacomo, Margherita, ipocondriaca e remissiva fino al masochismo, e lo è Graziella, la sua seconda moglie, un autentico gioiello di psicologia, per il buonismo lezioso fino alla stucchevolezza che nasconde invece un carattere pettegolo e maligno. E certo lo è Matilde, la moglie di Raimondo, prototipo dell’eroina romantico-masochista che finisce per morire d’amore. Oltre che «cocciuti» e cinici, gli Uzeda sono anche rozzamente incolti. Zia Ferdinanda, «la zitellona» che quasi non sembra una donna, è fiera della propria ignoranza, che considera un segno distintivo del proprio lignaggio. Anche Don Blasco, il vivace monaco blasfemo, lussurioso e avido, vede la cultura come «una minchionaggine», mentre il cavaliere don Eugenio, pseudo-letterato per necessità che si guadagna da vivere vendendo stemmi e genealogie fasulle ai nuovi ricchi, nasconde una parodia dell’intellettuale degradato di fine secolo.
IV. L’analisi psicologica, in De Roberto, è raffinatissima: tutti i personaggi sono contrassegnati da doppiezza e da mutamenti umorali, e questa loro duplicità e instabilità è un riflesso della degenerazione (ereditaria, certo, in linea con gli assunti naturalisti e il modello dei Rougon-Maquart di Zola), ma anche psicologico-sociale. Essa, insomma, è una conseguenza del clima storico e politico, è una manifestazione del trasformismo. Nell’universo dei Viceré, il gattopardismo è un modello comportamentale, più che semplicemente politico: è una malattia della psiche che intacca anche le sfere del privato. Per restare però al piano pubblico, esso è sempre messo sotto accusa dalla voce narrante. I due parlamentari Uzeda, Gaspare e il nipote Consalvo, scelgono la carriera politica per pura ambizione, senza alcun convincimento e alcuna idea, a parte il desiderio di potere. Per mostrarlo, basti riferirsi a una delle frasi più incisive del romanzo, pronunciata dal duca: «Ora che l’Italia è fatta, possiamo fare gli affari nostri», che rovescia il celebre motto patriottico di D’Azeglio: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli italiani». Nell’ultima parte dei Vicerè, Consalvo prende il sopravvento sui tanti parenti, diventando protagonista principale del romanzo. Egli è l’erede del titolo, il vero «predone» della nuova generazione, il vincente viceré dei tempi nuovi. Il figlio di Giacomo è il calco di un personaggio storico: si tratta del marchese Antonino Paternò Castello Di San Giuliano, un nobile catanese diventato sindaco di Catania e poi deputato e ministro nei governi Giolitti e Pelloux, quindi un personaggio politico di primo piano al suo tempo. Consalvo-Di San Giuliano incarna al peggio lo spirito dell’epoca: le sue qualità primarie sono il cinismo, l’opportunismo, il carrierismo, il trasformismo. È il trasformista per eccellenza della famiglia. È ovvio, quindi, che sia il principale bersaglio del romanzo, proprio come il marchese Di San Giuliano è l’oggetto di tante critiche espresse da De Roberto sui giornali catanesi. Per questo non si può pensare che lo scrittore fosse un sostenitore dell’ideologia gattopardesca e perciò un nichilista. Nel romanzo, infatti, il punto di vista della voce narrante non coincide con quello di Consalvo, e anzi ad esso si oppone in modo netto. Le affermazioni più “gattopardesche” del personaggio sono concentrate nel finale: «Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che ci sono i deputati, nostro zio è in parlamento. (…) Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai re, ora viene dal popolo... La differenza è più di nome che di fatto... Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; (…) Ma il mutamento è più apparente che reale. (…) «La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d'oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza.» (Consalvo, nei Viceré). Queste parole non veicolano il punto di vista di De Roberto, che resta in disaccordo totale con le convinzioni di Consalvo. Lo scrittore ne descrive la mentalità trasformistica, ma non vi aderisce.

V. Il risentimento che anima la sua scrittura è anzi il segno di una protesta non rassegnata contro il degrado e la corruzione della politica. Per la potenza di questa descrizione, I Viceré ci offre una rappresentazione storica di grande attualità, che sembra rispecchiare il declino civile e morale dell’Italia contemporanea. La mancanza di alternative programmatiche e la caduta degli schieramenti ideologici sono, infatti, i problemi più gravi anche della nostra democrazia. La rinascita dell’interesse per il romanzo si deve alla forte analogia tra la scena storica rappresentata e lo scenario attuale. Anche altri scritti di De Roberto sprigionano una forte carica di attualità, ma I Viceré offre quasi, mutatis mutandis, un ritratto dell’Italia contemporanea e del berlusconismo, inteso come fase di completa involuzione, come crisi anche morale e intellettuale. L’efficacia del paragone con il presente, peraltro, non si fonda su un’estrinseca somiglianza esteriore tra due momenti storici, ma sulla critica intellettuale di De Roberto, capace sia di rappresentare la storia senza infingimenti consolatori, sia di cogliere l’impasse della cultura nei momenti di crisi: De Roberto rappresenta lo stallo e l’impotenza del ceto intellettuale di fronte al degrado della politica.

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