Due immagini e due domande scomode
di Francesco Grosso
Non c’è niente di più falso di ciò che appare evidente, e questo, nell’Epoca dell’Immagine, è paradossalmente sempre più vero. Eppure, ogni tanto succede che un’immagine, magari attraverso l’Ovunque planetario della Rete, riesca a bucare il velo delle distorsioni e degli accomodamenti, riesca a penetrare l’etere senza incappare in filtri o in contestualizzazioni fraudolente, e a crearsi da sola un contesto, facendo leva sulla sua semplice forza descrittiva. È di un’immagine, anzi di un «fermo-immagine» di questo tipo, ricavato da un video diffuso nei giorni scorsi dalla tv «Abc News», che intendo parlare.
Andiamo con ordine. Il video riprende una specie di giuramento, o meglio, di consacrazione al martirio di trecento combattenti taliban. La solennità del momento si coglie dall’atteggiamento compostissimo, ieratico quasi, di tutti i partecipanti. A dire il vero, il tono odiosamente paternalista ostentato dagli officianti del rito (alti esponenti taliban) richiama quasi una sorta di cerimonia di premiazione, di conferimento di un titolo accademico. Nei ritmi e nelle forme sembra quasi scimmiottare quelle sciocche cerimonie di fine anno nei college americani – manca il lancio del cappello finale, mi si potrebbe obiettare.
Il set scelto dai registi occulti dell’oscena parodia non è casuale. Il paesaggio che fa da sfondo contribuisce a dare solennità al tutto. La telecamera non può fare a meno di cogliere l’indescrivibile bellezza del paesaggio circostante; una bellezza quasi minerale, assoluta, primordiale. Montagne rabbiosamente tosate dalla furia dei venti, cieli di un azzurro crudele ed opprimente. Siamo nel territorio dei pastun, quella vasta regione a cavallo fra Afghanistan e Pakistan, in cui da anni l’ideologia del jihad globale ha trovato terreno fertilissimo; zona nella quale la sconfitta dei taliban ad opera della coalizione guidata nel 2001 dagli Stati Uniti è stata solo una lontana eco. Tuttora laggiù le disposizioni e le leggi emanate dal governo insediato a Kabul sono refoli di vento che si perdono per gli altipiani arroventati.
La qualità delle immagini è buona, la regia è addirittura ottima. Abilmente la telecamera miscela il generale col particolare, concentrandosi ora sulle figure dei maggiorenti, mentre scandiscono frasi di morte e di odio verso l’occidente, ora sul gruppo dei trecento, tutti compostamente in ascolto, seduti. Benché i volti siano completamente coperti dai drappi neri dei turbanti, è facile accorgersi che molti dei «diplomandi» non sono nient’altro che ragazzini. Lo si intuisce dalla loro incapacità di stare fermi, realmente composti; alcuni muovono nervosamente le mani, come a volerne detergere il sudore che le bagna – sì, proprio come fanno i nostri adolescenti nel giorno degli esami.
A voler giudicare il tutto con piglio da critico cinematografico, c’è da rilevare che al suggestivo cast, alla soddisfacente fotografia e all’ottima regia fanno da contraltare testi decisamente scadenti. Distruzione, vendetta, eroismo, vittoria finale, teste da mozzare… Il solito rosario di minacce sconnesse, le solite frasi alle quali in occidente chiunque legga un quotidiano o guardi un telegiornale è ormai assuefatto. Altro difetto: il finale non è in crescendo. Gli ultimi fotogrammi sono dedicati alla smobilitazione che segue la cerimonia, facendo in questo modo torto alla solennità che la cerimonia stessa aveva profuso. Addirittura vengono ripresi alcuni combattenti che, come dopo un «ciak!», si liberano dei drappi e mostrano il volto. Ed è a questo punto che compare, per diversi istanti, in primo piano, un bambino. Testa dritta, portamento fiero; lo sguardo è quello serissimo dei bambini quando sanno di stare facendo una cosa da adulti. Non si tratta di una comparsa, ma di uno degli attori protagonisti: lui è nel gruppo dei trecento, è uno dei combattenti pronti ad immolarsi per fare a pezzi il maggior numero possibile di soldati o di civili occidentali. Ha giurato di farlo, e probabilmente lo farà.
Un bambino. Non sono affatto sicuro che, come hanno affermato quasi tutti i media in occidente, abbia dodici o tredici anni. Da quelle parti si cresce molto in fretta: potrebbe averne anche due o tre in meno. Ci sono foto che ritraggono anziani abitanti di Kabul ad angoli di strada, e quegli anziani hanno 35 o 37 anni. Diciamo così, allora: i tratti del volto avvicinano quel bambino alla fisionomia di un bambino occidentale di dodici anni. Evitiamo l’etnocentrismo «fisionomista». Anche se la sostanza non cambierebbe molto: quell’indugiare della telecamera su di lui, sulle sue guance logicamente prive di barba, è comunque osceno, come è osceno e farabutto ogni tentativo degli adulti di catturare e derubare l’infanzia per farne carne da cannone o da audience.
Il filmino, comunque, si ferma qui. Fermiamoci qui anche noi. Soffermiamoci sulla tragica solennità di quel volto, su quell’espressione furente di chi ha troppo sofferto e che troppo in fretta è cresciuto. Quel bambino, col suo giuramento, si è definitivamente lasciato alle spalle il mondo affascinante dei giochi e dei sogni, per entrare nel labirinto spaventoso degli adulti che odiano e che fanno la guerra. È diventato una sorta di zombie, come i «devotus» romani, che si consacravano alla morte in battaglia e da quel momento entravano in una dimensione a metà fra vita e morte. Quel bambino non è ancora morto, ma non è neppure più vivo.
Per quanto ci si sforzi, nell’immagine non è possibile trovare traccia del cappio che lo ha trascinato sul set: il suo collo sottile appare libero; né tantomeno c’è traccia dei furfanti che lo hanno indottrinato, esaltato, nutrito di odio per anni, e infine accompagnato in quella remota valle afgana, a giurare di farsi a pezzi per fare a pezzi qualcuno. Perché sì, sarebbe stupido affermare che il volto di quel bambino è un mero prodotto dei bombardamenti – sempre più sconsiderati, comunque, e sempre più controproducenti – dell’aviazione statunitense. Quel bambino è logicamente anche il prodotto di una ideologia, di un brodo in cui non è possibile discernere tutti gli ingredienti.
Ma la riflessione che voglio fare è un’altra. Non so bene per quale motivo, ma guardando il bambino-bomba mi è venuta in mente un’altra immagine di infanzia rubata; un’immagine che apparentemente non c’entra nulla.
È la foto che ha vinto il premio Pulitzer nel 1973: siamo in Vietnam, l’anno prima, e una bambina di nove anni – Kim Phuc, il suo nome – corre nel nulla, completamente nuda, visetto orribilmente contratto dal dolore, braccia spalancate come fosse crocifissa. Il suo corpo è stato appena ustionato e devastato dal napalm, lanciato sul suo villaggio dall’aviazione statunitense. Nei suoi occhi non c’è nessuna speranza: qualcuno ha detto che in quella foto c’è «l’Urlo di Munch vivente». La domanda che voglio porre è: qualche anno dopo il fatto fissato per sempre in quell’istantanea, avremmo potuto ritrovarci Kim, nella boscaglia, in un’altra foto, o magari in un filmino propagandistico, mentre giura di essere pronta ad ammazzare quanti più americani possibile? Avremmo potuto ritrovarci davanti agli occhi l’epilogo tragico, cioè la bambina in mille pezzi, dopo aver trascinato con sé decine di innocenti, in una qualsiasi città vietnamita o statunitense? Avremmo potuto, certo, ma non è stato così. Kim oggi ha 44 anni, un faccione bonario, una famiglia felice; vive in Canada, e fa l’ambasciatrice di pace per l’Unicef. Gira il mondo per raccontare quanto facciano schifo le guerre, soprattutto quanto facciano schifo le guerre che si accaniscono contro i bambini.
E l’immagine del bambino-bomba del 2007 cosa c’entra? C’entra, eccome. Nella foto di Kim non era stampato nessun destino: avrebbe potuto diventare una psicopatica assetata di sangue, e invece è diventata una bandiera della Pace. Di Kim non abbiamo nessuna foto-testamento, perché lei non si è mai consacrata a nessuna strage. Dell’anonimo bambino afgano, invece, l’immagine-testamento ce l’abbiamo. E allora? Non manca qualcosa? Sì che manca: manca la foto del bambino qualche anno fa, quando ha subito, o visto subire, una soperchieria talmente grande da iniettargli odio a sufficienza per farlo sentire assolutamente sicuro che la scelta della morte al tritolo è la scelta giusta, quella per cui è valsa la pena addestrarsi. Quel bambino deve essere cresciuto in un contesto tale da far diventare il suo odio subito adulto – e tutti sappiamo quanto odio siano in grado di produrre gli adulti.
Voglio dire: siamo in presenza di due immagini speculari. C’è una opposizione statica e una dinamica. Da una parte c’è la foto all’inizio, e poi non abbiamo quella della fine, perché il finale truculento non c’è stato. Qui invece abbiamo l’immagine finale, quella che prelude alla strage, ma non abbiamo la foto all’inizio, o meglio, non abbiamo la sequenza di foto, in grado di rappresentarci cosa è stata la vita di quel bambino, fino ad ora. Non sappiamo nulla, di lui. Sappiamo solo che ci siamo persi qualcosa: forse non c’era nessun fotografo, nei paraggi, mentre lui raccoglieva i brandelli dei suoi familiari fra le rovine della sua casa bombardata dai liberatori occidentali; forse nessuno gli ha dovuto spiegare cosa stessero facendo, di là, con la sua mamma, i soldati dell’Alleanza del Nord, quei tetri guerrieri ai quali nel 2001 l’occidente ha provveduto a consegnare una patente di legittimità.
Del bambino-bomba conosciamo soltanto l’odio che ci trasmette il suo sguardo, soltanto l’istinto nichilista che lo ha reso un mero oggetto nelle mani di adulti criminali. In ogni caso, temo che all’origine di quell’odio deve esserci stato qualcosa che ci chiama direttamente in causa, qualcosa che chiama in causa i tanti errori e i tanti orrori che l’occidente ha compiuto, per anni, da quelle parti. Seconda domanda: avremmo potuto fare qualcosa, per lui, prima di ritrovarcelo in quel filmino? Io credo di sì.
A Kim avrebbe potuto succedere di cadere nell’inferno, e non è successo. Dunque, anche al piccolo aspirante stragista poteva non succedere. Ora è tardi, ora dobbiamo soltanto fuggirlo come fuggiremmo un demonio.
Le due immagini, affiancate, provocano una strana sensazione. Sovrapposte, poi, finiscono per risultare sconvolgenti – lo sono già singolarmente, in realtà. Ci vuole coraggio, per guardarle insieme, per «pensarle» insieme. Ma è un coraggio che da qualche parte bisognerà trovare. Non lo dobbiamo solo a Kim Phuc, o al bambino-bomba: lo dobbiamo a noi stessi.
sabato 7 luglio 2007
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