Volevo solo dirti che ci sono
di Carlo Andreoli
Fateci caso. Oramai buona parte della pubblicità, che scorre sul video ed impazza nella radio, è dedicata ai telefonini cellulari. Sembra che il problema più importante delle famiglie italiane non sia tanto come arrivare alla fine del mese senza debiti (e senza peccati); ma quale sia la tariffa più opportuna per il proprio telefonino. Questa specie di sorcio elettronico, sempre più piccolo e sempre più scaltro, sbuca fuori dal giubbotto dei teen-agers, dalla borsa delle ladies, dal doppiopetto rigato dei managers e finanche dalla tasca interna del clergyman di compiti reverendi. Sembra che nessuno sappia più farne a meno. Molti ignorano come fare a pagare il mutuo in scadenza della prima casa; ma hanno le idee chiare sul bouquet di tariffe che renda fluido e conveniente il loro traffico telefonico. A scuola, la lezione su Parmenide è disturbata da continui squilli e squittii; che il docente à la page tollera con noncuranza, dato che pure lui è armato dell’inesorabile ordigno. In treno, la persona più educata, al minimo frullo del suo apparecchio, che vibra assieme al battito del suo cuore, guadagna il corridoio; e sussurra sottovoce frasi che s’indovinano di necessaria importanza. A messa, durante la funzione, un allegro trillo scappa talora fuori dai banchi assiepati, raggelando per un po’ il raccoglimento dei fedeli e la locutio del celebrante; e qualcuno s’allontana, con malcelata fretta, verso la navata minore, bisbigliando frasi segretate dal cavo della mano. Un effetto involontario di psicosi collettiva lo si prova, poi, percorrendo i marciapiedi di città nelle ore frenetiche di punta: quando uomini, che diresti per bene e di sano comprendonio, parlano da soli d’affari dei più vari (quotazioni di borsa, ricorsi in tribunale, questioni di cuore); confessando tutto all’auricolare che portano conficcato, in bella mostra, nell’orecchio. E’ pur vero che c’è ancora qualche apocalittico che si rifiuta ostinatamente di servirsi di quest’orpello tecnologico; e che a casa, nel proprio domicilio, custodisce su una mensola démodé del proprio corridoio un apparecchio telefonico dei bei tempi andati: unico vessillo di desueta comunicazione a distanza. Ma questi è visto chiaramente come una bestia rara; un cavernicolo ante litteram; che si mostra ingrato dei piacevoli ritrovati che il progresso tecnologico ci ammannisce generosamente.
Ma, alla buon’ora, sarà mai possibile vivere oggi senza telefonino cellulare; ed avere pure la pretesa d’essere felici? Se s’ascoltasse, per un attimo, il resoconto delle molte telefonate che viaggiano nell’etere, si potrebbe forse rispondere di sì. Giacché esse, all’infuori di casi eccezionali, comunicano propriamente il nulla: sotto forma d’inezie, carinerie, frasi di circostanze e melensi convenevoli. Essendo l’unico dato certo che si comunica il luogo in cui si è. Per molti, infatti, se non per tutti, la funzione peculiare del cellulare consiste nel comunicare agli altri che si è, hic et nunc, in un certo luogo del tempo e dello spazio; ed ogni altro messaggio suppletivo passa, per così dire, in subordine.
Essere cercati sul telefonino – sia pure con un solo squillo – dà un senso di gratifica e testimonia della propria esistenza in vita più di qualsivoglia certificato d’anagrafe. Se il numero di squilli e di relativi messaggi diventa poi esuberante; si può essere quasi certi d’un raggiunto stato sociale – tra i ragazzi del muretto come nel pieno d’un consiglio comunale o aziendale. Essere molto ricercato equivale infatti ad una patente dichiarazione di valore personale; acclarata, oltre tutto, coram populo: sotto gli occhi – e le orecchie – di tutti. Gli esperti di semiotica direbbero che s’è spostato, in maniera aberrante, il valore del messaggio: dal suo contenuto, spesso ininfluente, alla speciosità del mezzo ed alla sua ritualità convenzionale; ammantate oltre tutto d’una maliosa esperienza di modernità. Molte madri pensano in questo modo di controllare a distanza i propri figli; i superiori, i propri sottoposti; le mogli, i mariti e viceversa. Un surrogato, insomma, delle relazioni umane; che però spesso rimane solo nell’aria. E mai supplirà – si vuole credere - alla franchezza d’uno sguardo ed al calore d’un abbraccio. Perché gli affetti, diversamente dalle parole, non viaggiano nell’etere. Bisogna sperimentarli a tu per tu: stando l’uno di fronte all’altro: nella gioia, come nella sofferenza.
sabato 7 luglio 2007
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