sabato 22 marzo 2008

Galeazzo di Tarsia: poeta e barone di Belmonte

di Carlo Andreoli


La più alta espressione letteraria del Tirreno Cosentino è ravvisabile senz’altro in Galeazzo di Tarsia; che, nato a Napoli nel 1520, visse poi per tutta la sua vita a Belmonte; dove fu spietato despota fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1553, quand’egli aveva ancora 33 anni. Avvertiamo subito, infatti, che la personalità complessa di Galeazzo di Tarsia si connota per un duplice suo aspetto: di poeta, capace della lirica più pura e ardimentosa del nostro ‘500; e di barone truce e violento, che vessò i propri sudditi colle più atroci angherie.
Divenuto barone di Belmonte a 10 anni, dopo la morte del padre, Galeazzo fu avviato dai parenti agli studi umanistici nella Cosenza di Parrasio, di Coriolano Martirano e di Francesco Franchini: solo per citare le cime alte della cultura cosentina di quei tempi. Ed in quell’ambiente dovette assumere gli umori d’una poetica volta al petrarchismo; cui seppe però dare un’impronta personale: forgiandosi uno stile, aspro e stringato, che molto piacque non solo a un secentista, come Gian Battista Basile, che per primo diede alle stampe le sue Rime; ma pure ad uno spirito inquieto come il Foscolo che molto l’apprezzò, fino a prendere in prestito suoi versi. E tema centrale di tutte le sue Rime fu l’Amore: inteso come forza universale che sola informa l’esistenza. Un amore che Galeazzo sperimentò, a 18 anni, sotto specie d’ideale; frequentando, a Napoli, il cenacolo di Vittoria Colonna. E sposando, a 23 anni, Camilla Carafa; che fu invece la conquista terrena dell’amore che lo preservò dagli eccessi del suo temperamento. Ma asserragliato nel castello di Belmonte e capeggiando una masnada che contava pure i suoi fratelli, Cola Francesco e Tiberio, Galeazzo continuò a dividere la sua vissuta attività poetica colle soverchierie inflitte ai suoi vassalli. Tanto che questi rivoltatisi lo denunciarono alla Suprema Corte della Vicaria in Napoli; che nel 1547 prima recluse Galeazzo nelle Carceri di Castel Capuano per poi mandarlo a Lipari in confino. La sentenza di condanna descrisse orribili torture che il barone di Belmonte dispensava alla sua gente; che ne fanno un motivo di contrasto, ancora oggi inesplicato, con l’elevatezza del suo animo. Ma il suo impeto irruento non trovava requie; se, tornato libero a Belmonte dopo un anno e mezzo, prima si vendicò dei suoi testi d’accusa e dopo si diede a scorrerie, assieme alla sua banda, in danno della confinante cittadina d’Amantea. Fu allora che il Vicerè di Napoli, Don Pedro de Toledo, gli mise alle calcagne un regio commissario per riportare in quei luoghi l’osservanza della legge. Galeazzo fu rinchiuso nuovamente nelle Carceri di Napoli, mentre sua moglie moriva prematura nel castello di Belmonte. E nel 1551 fu ancora relegato nell’isola di Lipari; dove uscì graziato, l’anno dopo, per prendere parte, a Siena, ad una guerra in favore degli Asburgo. Ma fatto ritorno in Calabria, nel 1553, fu assassinato a Belmonte in un agguato tesogli forse da due vittime delle sue tante efferatezze. Un delitto che ancora oggi rimane oscuro; come oscura appare la personalità d’un uomo, che riusciva ad essere insieme eletto e sanguinario. Un uomo, la cui vita, come osservò Benedetto Croce, non ci dice tutto quello che agitava il suo animo e che solo s’avverte nei suoi versi.

Radio1One
(Venerdì 21 Marzo 2008)

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