di Luigi Panfili
Nelle scorse settimane si è assistito alla proposta-shock del ministro Fioroni, il quale dichiarava che sarebbero ritornati gli esami di riparazione a settembre, come avveniva in passato. Ed ecco grandi levate di scudi dal mondo della scuola, in particolare da parte degli studenti, ecco immediati dibattiti parlamentari, con strepiti e critiche al ministro, al governo, a tutti.
Ma è proprio da questo episodio che voglio prendere le mosse per parlare di un argomento che nel nostro Belpaese è ancora tabù, un termine che al solo pronunciarlo si viene guardati male: il merito. Tanto si è dibattuto sui problemi ormai congeniti al nostro sistema scolastico, sulle nostre Università, ma anche sui guasti che quotidianamente vengono compiuti nei concorsi pubblici e nelle assunzioni da parte dei datori di lavoro. Il filo rosso che collega tutti questi temi, la scelta di base che si è chiamati a fare è sempre la medesima: nelle nostre scuole e nelle nostre università bisogna promuovere tutti sul presupposto che si è tutti uguali a questo mondo? O piuttosto si deve confidare sulla meritocrazia, e perciò distinguere il buono dal meno buono?
Il nostro sistema, a fronte di garanzie costituzionali e legislative tra le più all'avanguardia, nella pratica sembra rispondere sempre meno ai criteri meritocratici, e sempre più a quelli cooptativi, di lobby e appartenenza politica, sociale, economica. Oggi – per illustrare un esempio – i titoli di studio (diplomi, lauree, master) non servono quasi a nulla: il mondo del lavoro sente la pressante esigenza di valutare sempre e comunque una professionalità e una cultura assolutamente non garantite nemmeno dai voti più alti conseguiti al termine di un ciclo di studi. Allo stesso modo, l'imprenditore che vuole assumere un dipendente, poca o nessuna attenzione presta ormai al suo curriculum ricco di 100 e di 30 e lode e molto valuta le capacità effettive del singolo di saper svolgere con accuratezza e perizia le mansioni per cui è selezionato. Ugualmente, un professionista che vuole ampliare le proprie attività assumendo collaboratori, poco si interessa degli studi e dei risultati da questo conseguiti, molto invece si interessa di valutarne le capacità concrete e attuali nel saper svolgere il funzioni cui sarà preposto. Insomma, con questo intendo dire che alla base di tutto c'è una sostanziale sfiducia dei datori di lavoro più seri e per la maggior parte privati nei confronti del nostro sistema scolastico. E non a torto.
Di questi periodi si guarda alla scuola, elemento fondamentale di qualsiasi democrazia moderna e dal funzionamento della quale si misura la civiltà di una nazione, non come strumento, ma come fine. Mi spiego meglio: piuttosto che essere strumento di selezione dei migliori e di scarto dei peggiori (criterio meritocratico), la scuola è diventata fine ultimo di molti giovani. Essi infatti sono allo stesso tempo protagonisti e vittime insieme di questo cattivo sistema e si trovano, alla fine del percorso di studi, a dover dimostrare ancora e continuamente le proprie qualità certificate e attestate da scuole non più credibili. E' vero infatti che queste, non privilegiando i criteri di merito, consentono a tutti di andare avanti, di fatto rimandando sempre il momento di una seria verifica delle attitudini e delle potenzialità dei singoli, fin oltre il momento del primo impiego.
Il ministro Fioroni ha capito, e anche bene, la profonda “squalificazione” che caratterizza la nostra scuola, così come la nostra università. E il messaggio dell'altro giorno, così come altri provvedimenti recenti del suo dicastero ne sono un segnale inequivocabile. E' stato un risveglio doloroso per il ministro, il quale si è reso evidentemente conto che andando di questo passo presto avremo il crollo totale del nostro sistema di istruzione. A fronte di tanti guasti prodotti dalla riforma Berlinguer, la quale sembrava eliminare il concetto di merito dalle istituzioni scolastiche, e a fronte di altri guasti della riforma Moratti, si è cercato – fuori tempo massimo come al solito in Italia, ma ben venga – di porre un freno e un limite ad un sistema che io non esito a definire “degenerante”. I famosi “crediti formativi” nelle scuole medie superiori sono stati certamente una novità importante, ma ha portato a preferire la commedia e l'attività c.d. “formativa” alla grammatica italiana e alla matematica e fisica. Col risultato ben poco edificante che tutti noi oggi conosciamo poco l'italiano e abbiamo un gap notevole nei confronti degli altri paesi europei in fatto di preparazione scolastica scientifica. Siamo però ottimi commedianti, graziosi ballerini, eccellenti conoscitori dello strumento telematico, nonché splendidi musici, e via discorrendo. E nel mondo del lavoro spesso questo conta molto più di una perfetta conoscenza dei segreti della geometria. Si corre però il rischio di non distinguere bene cosa sia la scuola dell'obbligo e cosa – certamente altro – sia la scuola di canto, ballo, recitazione, informatica, musica e via dicendo. E nel frattempo, tutti promossi, anche con carenze gravi: per recuperare c'è sempre tempo!
Discorso non diverso vale per il mondo dell'Università. Con la differenza notevole dell'esistenza di due realtà sempre più differenti e distanti: le università statali, con sempre maggiori problemi di fondi e di finanziamenti; e le università private, a volte migliori a volte peggiori delle statali, ma certamente con più fondi disponibili, date le esose tasse che impongono ai propri studenti. Pregiudizio comune e frequente è che un Ateneo elitario e molto selettivo possa essere discriminante, perché i ricchi avrebbero maggior libertà di scelta, mentre i poveri – non avendo pari possibilità – si troverebbero costretti ad usufruire delle più scadenti strutture e delle meno prestigiose docenze. Io dico invece che aprire le università a tutti e renderle accessibili anche ai non meritevoli significa stravolgere il senso stesso dell'istituzione: gli Atenei, nati come centri di altissima formazione e di eccellenza si sono moltiplicati nel tempo sino a diventare un luogo accessibile a tutti, dove la selezione non si svolge o si svolge in modo inefficiente. E la soluzione per rendere più giusto il sistema non è – come da taluni profetizzato – aprire il mondo universitario a tutti e indistintamente. Anzi, sarebbe più giusto il contrario. Semmai sarebbe necessario aumentare ancora di più la selezione, privilegiando i più bravi e scoraggiando tutti coloro i quali non hanno i numeri per affrontare l'università. Quest'ultima non è un obbligo, non è una necessità: è una delle tante possibili scelte da farsi al termine delle scuole medie superiori. E non è assolutamente vero che i più bravi studenti universitari siano sempre i più ricchi. Tutt'altro: se si lavorasse su tasse e contributi, nonché sulle borse di studio, si permetterebbe anche ai non abbienti di affrontare le migliori università, portando ad unico criterio di selezione il merito e non più – come sempre più spesso avviene – il censo. E questo – secondo Alesina e Giavazzi, autori del fortunato pamphlet “Il liberismo è di sinistra” – può avvenire in due modi: addossando i costi delle università sugli effettivi utenti e non sul Contribuente; mettendo a punto un sistema efficace di borse di studio di merito, parzialmente di merito, ed esclusivamente a favore dei percettori di redditi più bassi. Da ciò risulta ovvio che si avrebbero degli incentivi notevoli a studiare, e farlo bene: i costi infatti ricadrebbero esclusivamente sulle famiglie degli iscritti ai corsi e non su tutti i contribuenti italiani. Con tali accorgimenti non si priverebbero i più meritevoli di alcunché. Anzi, si consentirebbe loro di vivere al meglio l'esperienza universitaria pur essendo in ipotesi del tutto sforniti di mezzi. Questa è meritocrazia. Questa è libertà.
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