di Francesco Grosso
Ci sentiamo tutti in dovere di non scordare l’orrenda fine di Giovanna Reggiani, la donna che nei giorni scorsi, a Tor di Quinto, Roma, è stata aggredita da un clandestino romeno proveniente da una baraccopoli, e da questi seviziata, tramortita, e gettata in fin di vita in una scarpata.
Il problema è che un simile episodio di cronaca, di per sé facilmente strumentalizzabile data la materia scabrosa, ha permesso al meccanismo mediatico di valicare nuovi confini di indecenza. La povera vittima non aveva ancora concluso la sua agonia, e già lo sciacallaggio dell’informazione televisiva si era messo in moto. Alcune emittenti private (e i potentati politici che le controllano, che hanno tutto l’interesse a cavalcare l’indignazione popolare), avevano già sguinzagliato frotte di cronisti per la città, a caccia della massaia terrorizzata o del coatto da Curva Nord che la sparasse più grossa – ha avuto i suoi dieci secondi di celebrità anche il ragazzotto che ha proposto di appendere per la gola indistintamente tutti i romeni «ai lampioni, così ce fanno luce».
La reazione che ha preso il sopravvento, a livello mediatico, è stata quella del livore assoluto e indirizzato contro gli immigrati in generale – come se il complesso fenomeno dell’immigrazione verso l’Europa potesse essere osservato attraverso le lenti deformate di un episodio di cronaca nera avvenuto in Italia. E, quello che è peggio, padrona assoluta dell’agone televisivo è stata la disinformazione, anche terminologica: esperti, meno esperti, semplici comparse, hanno discettato per ore di minacce alla sicurezza, orde barbariche, Codice Penale, senza avvertire il bisogno di far conoscere al pubblico l’esatto significato di termini come «rom», «romeno», «zingaro», «extracomunitario», «clandestino»; senza far capire, ad esempio, che la Romania, dal gennaio di quest’anno, fa parte a tutti gli effetti dell’Unione Europea.
È dunque consolante, anche se non sorprendente, che nell’ora dell’odio e della superficialità, le parole più sensate, più dolci, più meditate, siano venute dai familiari della povera Gabriella: «Non tutti i romeni sono criminali. Una cosa simile avrebbe potuto farla anche un italiano. Se la morte di Gabriella venisse strumentalizzata ci dareste un nuovo dolore», ha dichiarato il giorno dei funerali il marito della donna; parole commoventi pronunciate con grande dignità, che – permettendomi di percepire il mio pensiero già ampiamente rappresentato – mi avevano convinto a non aggiungere alle mille voci anche la mia. Avrei evitato il rischio della banalità e della facile analisi a tavolino.
Non avrei voluto scrivere su questa vicenda, e non l’avrei fatto, se non mi fossi trovato, due giorni dopo la tragedia, davanti al televisore all’ora di pranzo. Rai Uno, la Rete ammiraglia della TV di Stato; per l’esattezza il TG1, il telegiornale canonico, al quale si affidano milioni di italiani – e che, in un Paese che praticamente non legge quotidiani, non legge libri, non legge niente, costituisce per molti cittadini l’unica fonte di informazione e di opinione – stava mandando in onda un servizio da una baraccopoli romana, abitata da rom provenienti per lo più dalla Romania. Una baraccopoli che raccoglie (come tutte le baraccopoli del mondo) una umanità derelitta e marginale, bambini in fasce e anziani spenti, donne per lo più indaffarate e maschi per lo più inoperosi, semplici poveracci e furfanti in cerca di copertura, tutti comunque accomunati dalle difficili condizioni del vivere.
Impegnata in una di quelle interviste “sul campo” che violano la quotidianità di persone accampate in riva al fiume, ma che fanno molto colore, una giornalista sta rivolgendo domande intelligenti, del genere: «Come va, quaggiù?» Risposta: «Benino, grazie.» Oppure: «Ma voi rubate? Scippate? Spacciate?» «No, no, per carità…» La simpatica inviata, però, a questo punto, introduce un sorprendente diversivo. Siccome i potenti mezzi della Rai non sono riusciti a preservarla dalla pioggia, ed è dunque stata costretta a portare con sé l’ombrello, a telecamere ancora accese si accinge a recuperare il prezioso oggetto, in precedenza lasciato incustodito presso una baracca. E in questo momento avviene il colpo di scena: il servizio, tingendosi di giallo, diventa tv-verità. Ebbene sì, signori: alla giornalista è… sparito l’ombrello. Apriti cielo: ecco la conferma che cercavamo. Gli zingari rubano, e rubano gli ombrelli. Ce l’hanno nel Dna, ecco. È tutto scritto: gli svizzeri sono sempre puntuali, i brasiliani sono indolenti, gli spagnoli calienti, i genovesi avari, i napoletani truffaldini. E via dicendo. Come nelle barzellette: c’è un italiano, un francese, un inglese… Hai visto mai che gli zingari si lasciavano scappare l’occasione di rubare un ombrello?
È evidente che queste sono mie conclusioni: la giornalista si limita a documentare il furto, non commenta, non entra nel merito – e ci mancherebbe altro. Il fatto è che il servizio pubblico dovrebbe stare sempre molto attento ai segnali che lancia. Dovrebbe conoscere la sconcertante potenza dei simboli, dei messaggi più o meno subliminali che passano, attraverso il tubo catodico; soprattutto se questi segnali arrivano ad un pubblico poco preparato, sprovvisto di anticorpi specifici, incapace di contestualizzare.
E allora, integriamola noi, l’informazione carente, diamo una notizia alla giornalista derubata e all’intero TG1: un ombrello abbandonato in un angolo, con l’improvvido proprietario che scorazza qua e là impegnato a porre domande sui massimi sistemi, scompare pure a Via Condotti, nel centro elegante di Roma, o a Via Montenapoleone, nel centro elegantissimo di Milano, o nel centro (meno elegante) di Cosenza, dove abito io. Scompare, l’ombrello incustodito; scomparirebbe dovunque, in centro o in periferia, nel centro commerciale o nel centro storico, in riva al mare o in riva al fiume, perché l’occasione fa l’uomo ladro (sdoganiamoli tutti, a questo punto, i luoghi comuni…), e perché la natura umana, in fondo, è questa: egoismo, lotta per la sopravvivenza, bilanciamento fra pulsioni primarie e controllo sociale.
Il furto di un ombrello per strada non è una notizia. Il furto dell’ombrello di una giornalista non è una notizia; le disavventure dei membri di una troupe televisiva non interessano e non devono interessare il telespettatore, perché altrimenti ogni servizio dovrebbe rendere conto dell’eventuale caduta del cameraman, magari inciampato nell’insidioso cavo del microfono, o del raffreddore dell’autista che accompagna la troupe.
Se poi si vuol parlare di utilità marginale, e dire che ci sono posti in cui gli ombrelli si rubano più che in altri, perché più utili, si faccia pure, ma si trasformi il tutto in vera informazione. Dunque: quaggiù rubano gli ombrelli perché quando piove a dirotto piove pure nelle baracche. Quaggiù vivono nel fango, ci sono bambini che non hanno mai visto un medico. Diamine, se servono, gli ombrelli, da queste parti; la vera notizia sarebbe stata: «Ecco, vedete? L’ombrello è al suo posto, non è stato rubato…»
Non è finita, comunque. La chiusura del servizio è da Antologia della Televisione: un vero e proprio frammento di tv-verità si dischiude agli occhi del telespettatore. Pochi minuti dopo la scoperta dell’esecrabile sottrazione di ombrello, il corpo del reato, nelle mani di una ragazzina sorridente, ricompare, e viene restituito accompagnato dalle scuse dell’intero accampamento. L’infinita dignità degli Ultimi, direbbe qualcuno. Alzi la mano chi riesce ad immaginare un finale simile nel centro di una qualsiasi città italiana, o dalle parti di Via Condotti.
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